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JACK BRAIN "Shadow archetype" (Recensione)


Full-length, Independent
(2023)

Non solo Metal, per il vostro umile recensore: siccome mi destreggio fra Heavy, Power, Symphonic, Gothic, Death e Black, per non farmi mancare proprio nulla, qualcuno ha pensato bene di farmi trovare sulla scrivania quest’album: scrivo queste righe proprio nel mentre lo ascolto, così da catturare al volo le impressioni che man mano si presentano nel mio limitato cervellino. Vi devo fare una confessione, che poi è solo un metter le mani avanti da ruffiano impenitente: io qualcosina di diverso dal Metal l’avrei anche ascoltata, in vita mia. Ricordo che eravamo agli albori dei 2000, proprio i primi anni del nuovo millennio, e influenzato da un qual certo Malfeitor Fabban, mi misi ad esplorare la musica elettronica, in particolare l’harsh EBM. Andai in fissazione per :WUMPSCUT:, per gli Hocico e i Dulce Liquido. Immaginate una musica anche ballabile, con la tipica cassa quadrata sui ogni quarto di battuta (tuz-tuz-tuz-tuz), una miriade di effetti e campionamenti e qualcuno che canta sopra tutto questo usando delle… screaming vocals! Era una roba da friggersi i neuroni: aggressiva, ma in un modo per me inedito.

Ma potrei ricordare anche Mortiis, ma solo quello dell’Era II, quindi del solo album “The Smell of Rain”, che era darkwave/synthpop. Qualcosa di Franco Battiato, ma non solo e non tanto quello del pop sofisticato anni ‘80, ma quello sperimentale anni ‘70, quello di album come “Fetus” o “Pollution”. E’ su quest’onda che imparai a suonare, più di vent’anni fa, usando una Digital Audio Workstation: io e la musica elettronica siamo legati a doppio filo, solo che poi io l’ho usata come mezzo per raggiungere un fine, che era sempre il ritorno al Metal fisico, in carne ed ossa.

Quindi, arrivati a questo paragrafo, la mezz’ora di durata dell’album in analisi è trascorsa non senza difficoltà: adesso siamo tornati al silenzio, ma prima di mettere qualcosa di Slam Brutal Death, mi impongo di finire questa recensione. Il nostro Jack Brain ha un progetto solista dove suona quel che gli pare, com’è giusto che sia, e quindi in questo lavoro va giù pesante di suoni sintetizzati, sia nella sezione ritmica che nelle note di synth che a volte collidono con delle chitarre distorte, dalla timbrica spesso filtrata da artifici digitali. In questo cocktail di sonorità ora rock, ora electro, ora forse qualcos’altro che non riesco a identificare (per via della mia ignoranza che si palesa quando si esce dalla comfort zone del Metal), ritroviamo una voce che, anch’essa talvolta processata da vari effetti di sintesi, non ha saputo coinvolgermi in nessun modo. Posso passare da André Matos (che riposi in pace!) a Chris Barnes senza problemi, ma in questi casi la mia apertura mentale si blinda a doppia mandata, e ritiro anche il ponte levatoio.

Non potrei quindi dare un voto: le mie ristrettezze di gusti e vedute andrebbero a far capitombolare il giudizio chissà dove. Non è rispettoso per l’impegno profuso da un artista che si adopera per comporre e pubblicare qualcosa di particolare e personale. Non potrei, ripeto, ma temo di doverlo fare: sono formalismi, i voti numerici, ne avrei fatto volentieri a meno, ma mi tocca, purtroppo.

Recensione a cura di Luke Vincent
Voto: 60/100

Tracklist:

1. Daydream
2. Magic Spark
3. Nike
4. Fantasy
5. Habit
6. The art of noise
7. Timeless dare
8. Pretty floyd
9. Shadow archetype
10. Twin 69

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