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EXODUS “Blood In, Blood Out”

Full-length, Nuclear Blast 
(2014)

Procediamo con ordine: gli Exodus ritornano, a distanza di quattro anni dal precedente “Exhibit B: The Human Condition”, con questo nuovo album, e lo fanno andando a riscomodare Steve “Zetro” Souza, loro vecchio singer, e quindi già questo per molti è un punto di vantaggio acquisito. Il perché, onestamente, mi è alquanto sconosciuto.
Se è vero che con questo singer la band della Bay Area ha sfornato i propri dischi migliori, è anche vero che colui che lo aveva sostituito non ha di certo sfigurato, firmando con la sua prova convincente una manciata di album post-2004 di tutto rispetto. Non eccellenti certo, almeno a parere di chi scrive, ma che di certo non brillavano troppo non per demeriti del povero Rob Dukes, ma di uno stile che era andato evolvendosi verso qualcosa di più pesante e moderno, ma meno ispirato.

C’è poi da evidenziare il fatto che riprendere Souza non ha portato la band a uno stile compositivo simile ai fasti di inizio carriera. Sostanzialmente la band suona esattamente come negli ultimi tempi, e Souza deve sgolarsi per adeguarsi alle strutture complesse e alle bordate grooveggianti e brutali a cui gli Exodus ci hanno abituati da un po’ di anni a questa parte. Ed è questo il punto che va a scapito del tutto. Ha senso riprendere il vecchio singer e cercare di farlo cantare come Rob Dukes? O magari è una iniziativa di Zetro stesso, ma il risultato non cambia. A mio avviso il vero elemento che non va in questo disco è proprio la voce, ma purtroppo non solo e dopo spiegherò il perchè. La classica timbrica nasale e acuta di Souza appare snaturata in un contesto sonoro sempre più pesante e brutale. Le sue corde vocali non reggono cotanta brutalità e probabilmente avesse cantato come sua consuetudine sarebbe stato molto meglio, o perlomeno più credibile Certo il suo timbro è riconoscibilissimo, ma si sente che è sforzato, non sempre naturale, e questo non aiuta il disco a decollare.

In più di un’ora di thrash metal ribassato e schizoide, gli Exodus sfoggiano un po’ tutte le loro armi; il riffing nervoso di Gary Holt è pur sempre udibile seppur portato al limite dell’aggressività, il drumming preciso di Tom Hunting, che pesta a dovere le sue pelli sorreggendo strutture articolate e di non facile presa se non dopo svariati ascolti. In pratica le tre canzoni iniziali sono una vera dichiarazione di guerra, e mi riferisco a “Black 13”, “Blood In Blood Out”, “Collateral Damage”, in pratica tre schegge veloci e devastanti che si scagliano sull’ascoltatore senza pietà. Il lavoro migliore credo che lo faccia Gary Holt, il suo riffing è riconoscibile tra 1000 chitarristi, pungente, nevrotico, cattivo. Si prosegue con la più cadenzata “Salt the Wound”, con un riff iniziale che vagamente ricorda quello di “Blackened” dei Metallica, e infatti appare come guest Kirk Hammett, ma che poi mantiene velocità ragionate e una struttura più semplice delle precedenti. Da qui in poi si comincia a calare un po’. E la voce di Souza ancora peggio. Infatti “Body Harvest” appare come pezzo altamente interlocutorio, con la voce che rovina quanto di buono si sarebbe potuto salvare. “BTK”, appare nettamente in linea col materiale di “Shovel Headed Kill Machine”, col suo incedere altamente groovy sorretto da una doppia cassa che dà spessore ad un pezzo che però non sfocia mai nella velocità vera e propria. In pratica il brano si snoda su vari mid tempo, dove le chitarre ogni tanto variano il riffing, ma anche qui dopo un po’ la noia comincia ad avanzare, per una proposta certamente heavy ma povera di guizzi creativi in grado di trascinare l’ascoltatore. Un finale con Chuck Billy alla voce e un riffing che diventa sempre più opprimente non bastano per salvare un brano abbastanza sotto tono…

Ci si rialza un po’ con la più classica “Wrapped in the Arms of Rage”, più veloce e incalzante, seppur non così esaltante. Qui comunque il thrash tipico degli Exodus di inizio carriera è più presente e la canzone fila liscia senza troppa gloria, ma comunque lasciando una sensazione gradevole, grazie anche all’ottimo lavoro della chitarra in fase solista. “My Last Nerve” ci riporta a tempi cadenzati ed heavy, ma qui di nuovo si cade nella trappola del ripetitivo, della noia, del riciclare con poca convinzione uno stile che pare unirsi al thrash-groove metal di ultima generazione, ma dove, purtroppo per gli Exodus, non hanno né la voce di un Phil Anselmo (ma proprio volendo anche del licenziato Rob Dukes), né i riff di Dimebag Darrell. E’ come ritornare parzialmente all’atmosfera del controverso “Force Of Habit”, che tutti sappiamo quanto poco bene abbia portato alla band. E di nuovo si ripesta veloce con “Numb”, un po’ come a dimostrare che la band sa alternare sfuriate e cose più ragionate, quasi come fosse una regola da seguire per forza per tutto l’album, ma come spesso è avvenuto nella seconda metà di questo disco, non convince.

A questo punto mi domando se sono io che non amo più il thrash o se gli Exodus non riescono più a sfornare lavori che si avvicinino lontanamente al loro disco migliore per chi scrive, ovvero “Fabulous Disaster”. La risposta è semplice: se io ascolto di nuovo “Fabulous Disaster” mi piace, così come una miriade di altri lavori thrash, che risiedono soprattutto negli anni ’80, ma non necessariamente. Il problema del thrash attuale a mio avviso, è che c’è troppo livellamento in tutto: nei suoni, nella personalità, nello stile, nella produzione. E quindi ecco che, se le nuove leve si presentano sul mercato con dischi sfavillanti nei suoni ma scarsini a livello di attitudine, anche i grandi cercano di accodarsi a questo trend. E’ una cosa quasi inspiegabile, perché in teoria i “big” dovrebbero dettare le regole, e invece queste oggigiorno sono dettate dai giovani, con annesse pecche. E questo sta danneggiando tutta la scena, TUTTA.  
Non è colpa, come dicono molti, dei suoni che mamma Nuclear Blast sembra imporre. La colpa è nella testa dei musicisti thrash, piccoli e grandi. Ormai il mercato vuole questo, e questo viene dato, per non rischiare. Solo “Honor Killings” salva una seconda parte di disco prolissa e pallosa come poche, che viene affossata dal rientro (ATTESISSIMO!) di Steve Souza dietro al microfono. 

Un disco che salvo per la tecnica di primo livello, ma che lascia davvero molto a desiderare e a riflettere se la mossa di mandare via un frontman di razza come Rob Dukes sia stata azzeccata. Per me no.

Recensione di: Sergio Vinci “Kosmos Reversum” 
Voto: 60/100

Tracklist: 
1. Black 13 06:21 
2. Blood In Blood Out 03:42 Show lyrics 
3. Collateral Damage 05:27 
4. Salt the Wound 04:24 Show lyrics 
5. Body Harvest 06:28 
6. BTK 06:56 
7. Wrapped in the Arms of Rage 04:30 
8. My Last Nerve 06:10 
9. Numb 06:14 
10. Honor Killings 05:42 
11. Food for the Worms 06:23

DURATA TOTALE: 01:02:17

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