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CHRIS POLAND "Return to Metalopolis" (Recensione)


Full-length, Roadrunner Records
(1990) 

Doverosa premessa: strano ma vero, “Return To Metalopolis” è il primissimo vinile che io abbia mai comprato. Ricordo ancora le circostanze: un amico l'aveva preso, attratto dallo sticker in bella vista che recitava “ex Megadeth guitarist” riferito a Chris Poland, e ne era rimasto deluso. Ovvia la decisione di girarlo a me, che mi ritrovai per la prima volta con un bel vinile tutto mio tra le mani, con tanto di logo Roadrunner e quanto altro. Il piccolo episodio autobiografico contiene un riferimento ovvio ma sostanziale: chiunque conosca i Megadeth sa perfettamente che la matrice così particolare e dirompente dei loro primi due dischi è sì frutto del riffing rabbioso e viscerale del fulvo Mustaine, ma che alla formula concorrono in egual modo il drumming schizzato di Gar Samuelson, lo stile indomito di David Ellefson e il contributo fuori dai canoni del buon Chris Poland, per una miscela esplosiva che ancora oggi detta le coordinate per chiunque si avvicini al thrash metal. 

Dunque, uscito dai Megadeth per insanabili dissidi con il mastermind – che comunque non gli impediranno di tornare a collaborare con la band in vari momenti successivi – e fresco di un'insolita esperienza come bassista dei punk statunitensi Circle Jerks, il nostro Chris decide di registrare un album solista con il solo ausilio del fratello Mark alla batteria; il risultato è questo “Return To Metalopolis”, con nove tracce (dieci nella versione in cd) che dispiegano al meglio la particolarissima miscela di jazz, fusion e metal che concorre a definire lo stile del chitarrista originario dello stato di New York. Sgombriamo il campo da possibili perplessità: il disco è tutt'altro che un mero e sterile esercizio di tecnica, quanto piuttosto un'ottima dimostrazione di come sia possibile comporre delle tracce strumentali e incentrate sul lavoro chitarristico senza perdere di vista quello che è il fulcro di un lavoro metal, ossia un riffing rabbioso, convincente e incisivo, senza inutili fronzoli. Proprio così: basti pensare all'opener “Club Ded” e alla dichiarazione di intenti contenuta nei maestosi accordi di apertura, poi doppiati dalla pennata tagliente su cui si staglia l'inconfondibile stile solistico con risoluzioni che alternano terze e quarte, per capire di aver dinanzi un piccolo gioiellino. È probabilmente il lato A a dare il meglio di sé in questo lavoro, con la successiva ed eterea “Alexandria” (che beneficerà di una versione più canonicamente jazz/fusion negli OHM, attuale progetto di Poland), la rabbiosa title track, apparentemente l'episodio più vicino alle sonorità dell'ex band madre, e “The Fall Of Babylon”, costruita su un arpeggio dal magnetismo indiscusso. Non che il lato B possa mai deludere l'ascoltatore: meritano sicuramente una menzione speciale la baldanzosa “Row of Crows” e la conclusiva “Khazad Dum”, uno dei punti più alti dell'album, i cui arpeggi oscuri e le timbriche ora solari ora opprimenti degli assoli sembrano davvero evocare le miniere tolkeniane dei nani a cui fa riferimento il titolo, fino al tema finale che ne rappresenta il degno culmine. 

Sicuramente consigliato a chi non abbia paura di avventurarsi nell'ascolto di un disco strumentale e che al contempo conosca poco l'operato di questo chitarrista, rimasto per vari motivi all'ombra di quella che è stata la grande epopea dei Big Four, ma sicuramente responsabile di una parte importante del loro marchio di fabbrica. A margine, aggiungerei come una nota rivista dell'epoca si trovò ad accostare inopinatamente “Return To Metalopolis” al più blasonato “Scenes” di Marty Friedman al fine di criticarne la formula di base; ecco... non potrebbero esserci due dischi più differenti negli intenti, nonostante la quasi contemporaneità. Per non sbagliare, fidatevi di me... 

Recensione a cura di: Francesco “schwarzfranz” Faniello 
Voto: 82/100

Tracklist:
1. Club Ded 03:35 instrumental
2. Alexandria 04:05 instrumental
3. Return to Metalopolis 03:03 instrumental
4. The Fall of Babylon 04:56 instrumental
5. Row of Crows 03:25 instrumental
6. Theatré of the Damned 03:52 instrumental
7. Beelzebub Bop 03:28 instrumental
8. Apparition Station 02:44 instrumental
9. Khazad Dûm 03:43 instrumental

DURATA TOTALE: 32:51

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