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HEAVY METAL: filosofia di vita, religione laica


E’ un po’ come scoprire l’acqua calda: constatare che l’Heavy Metal non sia solo una corrente musicale è qualcosa su cui noi tutti concordiamo! Certo non è solo una sub-cultura – o meglio: una contro-cultura – caratterizzata da un dressing code particolare, da un’acconciatura dei capelli riconoscibile e codificata: questo non è più vero da tempo! Ci sono elementi, avvalorati dalla longevità del genere nel corso delle decadi – cosa in contro-tendenza agli andamenti tipici delle tendenze del momento - che ci portano a vedere nella passione per l’Heavy Metal qualcosa dalle caratteristiche della filosofia di vita, un modo di essere, finanche una religione laica. C’è un’entità astratta, posta quasi al rango di divinità suprema e superna, che è il Metal come termine generico, un ombrello sotto il cui riparo trovano asilo divinità minori d’un pantheon variegato che sono i sotto-generi: Thrash Metal, Power Metal, Death Metal, Black Metal e tanti altri riferimenti ancor più parcellizzati e personalizzati,

Proprio come le religioni più classicamente intese, il Metal tratta di tematiche come il Dolore e la Morte, con una funzione esorcizzante: il ricorso a immagini orrifiche, truculente, repellenti, è un espediente già praticato dalle iconografie sacre per mostrare le miserie, le fallacie del corpo in contraltare alle prospettate beatitudini dell’anima. Il Metal in questo è più realista: si ferma a indagare le sofferenze del corpo e dell’anima, dandone uno spaccato artistico che non è gradito alla società, che è abituata a stigmatizzare e rendere tabù tutto ciò che non asseconda il suo disegno – spietato, crudele – di un “allegro” progresso ad ogni costo.

La voce del Disagio, questo è il Metal, e solo così può dar davvero fastidio allo status quo: una voce rabbiosa, ma artisticamente disciplinata, contro la dittatura del Felice per Forza. Oggi abbiamo forse perso un po’ questa velleità antagonista, inseguendo stucchevoli edulcorazioni del genere che mirano a normalizzarne la portata eversiva. Qualsiasi simpatia sbandierata per anti-divinità d’una qualsiasi mitologia di riferimento, è solo uno specchietto per le allodole per quel che il Metal è davvero: un culto, non per forza prostrante e genuflesso, verso qualcosa che ci offre asilo in un mondo – quello sì – davvero orribile, che ci vuole tutti felici e contenti.

Se il Metal e i suoi sotto-generi sono le divinità adottate da questa schiera eterogenea di nerd, weirdo o outsider che dir si voglia, abbiamo i sacerdoti che ne officiano il culto e ne rappresentano il Verbo in Terra: le band, con il loro ordine di rilevanza, partendo da Iron Maiden e Metallica fino alle più piccole realtà locali e periferiche. Una Chiesa, le sue Diocesi e le sue Parrocchie: siamo sempre lì, poco cambia! E cosa sono i concenti, se non riti collettivi, liturgie celebrate da un palco/pulpito per omaggiare, tutti insieme, tutti in coro, la somma Divinità a difesa di noi tutti? Ci sono poi quelli che onorano il culto in modo casalingo, intimo, lontano dalle masse e dai riflettori: se il Metal, come qualsiasi Dio che si rispetti, è onnisciente e onnipresente, non avrà problemi ad ascoltarci nelle nostre camere private.

Non ho idea se la secolarizzazione che avanza – che ci tiene a mantenere certe icone solo per discutibili intenti identitari – sovrasterà anche il Metal: io vedo oggi una banalizzazione del genere, con innocue derive verso il socialmente accettabile e il politicamente corretto. Il Metal è la religione che rappresenta gli ultimi, o per lo meno i diversi, i disadattati, al di là di ogni appartenenza politica o territoriale: se siamo, fin dall’inizio, destinati all’inferno, bene, non abbiamo più nulla da perdere, quindi siamo fastidiosi e scomodi. Siamo liberi.


Autore: Luke Vincent

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