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THE OSSUARY "Southern Funeral" (Recensione)


Full-length, Supreme Chaos Records 
(2019) 

Non saprei dire da quanto tempo esista il retro rock, in tutte le sue forme. Probabilmente si tratta di un fenomeno tipico del decennio che volge inesorabilmente al termine, in un processo ciclico che vede gli anni Dieci guardare con interesse ai Settanta del secolo scorso un po' come era avvenuto nei (per me molto cari) Novanta, con fenomeni come grunge e stoner, tanto per citarne un paio, oltre che con il rinnovato interesse per i padrini indiscussi dell'heavy metal, i Black Sabbath. Ecco, parlavamo di retro rock, di suoni d'epoca e se devo fare un bilancio dirò che i progetti più convincenti in quest'ambito non sono quelli che partono da coordinate di heavy classico (parlo del background dei musicisti), anzi: a far meglio sono i musicisti con alle spalle anni di militanza nell'hardcore/punk, nel crust, fino a spingersi all'extreme metal più oltranzista. 

Ecco perché avevo personalmente guardato con vivo interesse alla nascita della band barese The Ossuary, nel lontano 2014: l'ascolto di “Graves Underwater” (primo estratto in versione demo) non poteva che confermare il mio assioma, provenendo buona parte della formazione degli Ossuary dai veterani Natron, death metallers DOC con all'attivo vari album apprezzatissimi a livello underground. Perché questa formula riesce meglio o chi ha esplorato territori ben più estremi? La risposta non è univoca, certo è che quell'immediatezza sperimentata in precedenza ha i suoi benefici persino su territori sonori che oggi vengono considerati quasi socialmente accettabili (e sottolineo “quasi”), benché all'epoca rappresentassero un punto di rottura non indifferente con certe convenzioni tuttora dure a morire. Detto questo, gli Ossuary avevano mostrato il loro valore sul debut “Post Mortem Blues” (2017) e ora, a due anni di distanza, tornano con questo “Southern Funeral”, un album che a livello tematico segue le linee tracciate dal precedente, pur rappresentando un netto passo avanti dal punto di vista dell'approccio compositivo e soprattutto della ricerca di soluzioni originali, pur nella stretta osservanza dei dettami heavy/psych/doom di riferimento. 

Ecco, il primo ascolto di questo secondo disco della band mi aveva quasi fatto pensare allo stoner, nel senso di approccio più “fresco” e meno legato agli stilemi tipici dell'HM – sebbene la band si muova da sempre sul confine tra hard rock settantiano e proto-metal di fine '70 / inizio '80, con un occhio alla frangia più oscura della NWOBHM. Eppure, stavolta... l'impatto è stato positivo sin dalle prime note dell'opener “Walk into Sepulchral Haze”, i cui riff circolari conferiscono il giusto respiro alla composizione, una sensazione che col precedente disco non avevo avuto, nonostante la qualità fosse alta anche allora. Probabilmente, la differenza sta nel fatto che quando si entra nell'atmosfera '70 / '80 la tentazione iniziale è quella di spingere sul pedale del metal, per poi pian piano lasciarsi conquistare dalle nebbie del tempo e calarsi nel mood corretto per reinterpretare quel periodo, alla stessa stregua di un traduttore che non sia legato alla storiografia imperante ma che cerchi di arrivare al cuore “primario” del testo di riferimento. 

Come già anticipato, l'evoluzione degli Ossuary ha favorito anche la personalizzazione del sound, con un deciso rimescolamento delle carte che ha prodotto, tra le altre, la nera elegia “Maze of No Return”, forgiata nello stile degli Uriah Heep, ma con punte di occultismo che non possono che richiamare i Black Widow o il maestro Arthur Brown. Prendete poi “Belphegor”, leggera e aleggiante: il singer Stefano “Stiv” Fiore si libera qui decisamente delle suggestioni Dio / Martin per entrare nelle vesti del predicatore americano di frontiera, testi sacri in una mano e strizzabudella nell'altra, con tanto di voce catarrosa a mettere in guardia gli astanti dalla dannazione. A questo proposito, un occhio all'artwork non può che rendere il senso della capacità di sintesi del quartetto: una rappresentazione della Morte che ricorda da vicino l'iconografia della Bible Belt d'Oltreoceano, immersa a sua volta nello scenario tipico della Terra di Bari, con le inconfondibili mura di Castel del Monte a sovrastare una spianata infestata dal Triste Mietitore e dai suoi accoliti. 

Certo, non mancano concessioni al più puro stile sabbathiano, come il rifferama e la sezione ritmica della title track, che non manca però di farsi “liquida” e psichedelica, complici gli arpeggi e le vocals sofferte. E ancora una volta emerge con “Eternal Pyre” quel proto hard rock ben sistematizzato a suo tempo dal Sabba Nero e ripreso (stavolta sì) da molti dei campioni del recupero settantiano di due decadi dopo (o due decadi fa, se preferite); d'altronde, l'imprinting è chiaro e la band non ne fa mistero, con le tracks che si snodano fino a “Shadow of Plague”, l'ultima processione, con gli inserti di tastiere a sottolineare un'atmosfera funerea che è comunque baciata dal sole cocente, bianco e accecante nei suoi riflessi sui muretti a secco anziché sulle carcasse decimate dai coyote. In fondo, si è sempre a Sud di qualcos'altro... 

Recensione a cura di: Francesco “schwarzfranz” Faniello
Voto: 82/100

Tracklist:

1. Walk into Sepulchral Haze
2. Maze of No Return
3. Belphegor
4. Southern Funeral
5. Eternal Pyre
6. Sleep Demon
7. Under the Spell
8. Shadow of Plague

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