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SLIPKNOT ".5: The Gray Chapter"

Full-length, Roadrunner Records
(2014)

Ed eccoci,  disco atteso da molti e detestato già da altrettanti prima ancora che sia nei negozi. C’è da dire subito una cosa: gli Slipknot continuano grossomodo ad essere gli Slipknot. Questo nuovo capitolo, al di là di una produzione più pulita, di un cantato leggermente meno estremo, fino ad arrivare ad aperture melodiche alle quali i nove maggots ci avevano già abituato ma mai spinte oltre come in questo nuovo album, colpisce soprattutto perché fondamentalmente non cambia troppo le carte in tavola del classico Slipknot-sound.
Quello che a mio avviso manca è ciò che un po’ manca almeno dal 2004, cioè quella rabbia pura e genuina che contrassegnava i primi lavori della band. Non credo che le due defezioni al basso e batteria, entrambe per diversi motivi, abbiano influito più di tanto su questo “smussamento” del sound, perché è una evoluzione che bene o male va avanti da “Vol.3: (The Subliminal Verses)”.

I Nostri quindi hanno privilegiato anche questa volta, come nel capitolo precedente, soluzioni apparentemente più lineari, ma non più di tanto, nel senso che se è vero che non ritroviamo il caos primitivo di “Slipknot” e “Iowa”, è anche vero che la produzione pulita e luccicante che i Nostri hanno stavolta attuato rende il tutto più fluido e facile all’ascolto. Anche le percussioni, già in precedenza non così preponderanti per l’economia della band, stavolta sono proprio ridotte al lumicino, e direi che appaiono quasi solo sulla carta. Importante è come al solito il lavoro delle chitarre, sebbene siano state mixate un po’ troppo basse di volume, e soprattutto di voce e batteria. Nel caso della voce si nota che nelle parti urlate Taylor adotta una timbrica meno gutturale rispetto al passato, e nelle parti pulite cerca di spingersi oltre, definendo alcune canzoni con la sua timbrica calda e sofferente, ma mai come in questo caso “commerciabile”. 
E’ un disco comunque sfaccettato e completo. Si parte in quarta dopo l’intro “XIX” (debitrice ai Korn di “Issues”) con “Sarcastrophe”, una mazzata che si apre con chitarre pulite e che poi parte come una scheggia. Qui pare davvero di trovarsi davanti ad un episodio di “Iowa”, se non fosse per i suoni più miti, dove trovano spazio anche parti in blast beat e le chitarre sono grosse e devastanti. Si prosegue con “AOV”, anch’essa veloce e potente, ma rinfrescata da ritornelli con voce pulita che sanno molto di metal per tutti (purtroppo). Infatti la song non sarebbe stata male se non fosse stato per questa inflessione ruffiana troppo marcata. “The Devil in I” è già conosciuta credo dalla maggioranza dei fan della band essendo stata messa tra le anteprime del disco molto tempo fa. Altro episodio direi interlocutorio, che si sviluppa tra parti pesanti e altre melodiche, un po’ come le più conosciute “Wait and Bleed” o “Left Behind”, ma non raggiungendone minimamente il pathos. Oltre la buona prova di Taylor salvo poco in questa canzone. Arriviamo a “Killpop”, ancora troppo moscia e sempliciotta, sebbene abbia una vaga atmosfera dark che la rende un minimo interessante.

Possiamo risentire i veri Slipknot in “Skeptic”, dove finalmente la rabbia si unisce con ritornelli cantabili ma azzeccati. “Lech” ha un vago incedere industrial, ma non riesce ad essere incisiva come dovrebbe, in quanto le parti più veloci sono spesso intervallate da altre più cadenzate, ma il tutto sa un po’ di collage poco convinto. Certo, l’effetto frullatore è assicurato, ma da sobri non credo farà molto effetto…Continuaiamo con la crepuscolare ballad “Goodbye”, con un Corey Taylor sempre ispirato nelle parti pulite. Bello il crescendo finale quasi solenne che chiude il pezzo nel migliore dei modi, seppure non riesca a rendere il pezzo un capolavoro, ma almeno risveglia un po’ dalla noia che poteva essere in agguato. 
Si ritorna alle mazzate con “Nomadic”, finalmente ficcante e decisa, capace di creare il classico muro di suono a cui la band dell’Iowa ci ha abituato. Per la sua struttura mi ricorda un po’ “Everything Ends”, altro strepitoso brano tratto dal loro capolavoro “Iowa”.

A questo punto sorge spontanea una riflessione e una conseguente –personale- constatazione. Perché gli Slipknot rendono meglio quando fanno gli Slipknot? Cioè, se andiamo a veder gli episodi più convincenti, come quest’ultimo, sono quelli dove la band suona come ai vecchi tempi, o perlomeno ci prova. E’ vero che sono passati circa 15 anni dai loro dischi migliori e che le persone cambiano, fanno diverse esperienze sia di vita che musicali, ma è chiaro come il sole che le tentazioni troppo commerciali rovinano quanto di buono avrebbero potuto esprimere in questo disco. Come nel caso di tante altre bands, non si tratta tanto di essere più o meno duri, ma del fatto di inserire troppo di qualcosa che non collima con un sound già collaudato, una formula che risulta vincente solo se tutti gli ingredienti sono inseriti con le giuste dosi. Ed ecco che infatti quello che ho appena detto si allaccia alla perfezione in un altro episodio insipido come “The One That Kills The Least”, melodica ma brutta, e non brutta perché melodica, non so se mi spiego. 
Di nuovo velocità con “Custer”, che risulta episodio non disprezzabile, ma privo di guizzi in grado di renderla memorabile. L’interlocutoria “Be Prepared For Hell” (episodio quasi industrial-noise), ci introduce in un altro episodio già noto a molti, ossia “The Negative One”, anche questa non malaccio e in linea col passato della band, sebbene la prova di Taylor al microfono qui sembri un po’ appannata e non troppo ispirata. Peccato, perché la parte strumentale picchia che è un piacere, tra parti dove i synth creano disturbo (in bene) e altre tritaossa, soprattutto verso il finale di canzone. Di nuovo atmosfera con la oscura “If Rain Is What You Want”, tutto sommato convincente nella sua oscura essenza, se non fosse per un finale dove la melodia prende nuovamente il sopravvento, anche un po’ forzatamente.

Che dire, il disco ha in sé due anime, una Slipknot e una Taylor, e la mia impressione è che dove prevale quella voluta da Taylor sia quella dove compaiono gli episodi peggiori, e purtroppo ne conto almeno sei in questo disco. Come dicevo, la band sostanzialmente è sempre la stessa, ma la troppa melodia inserita in maniera non ottimale e, a volte, un po’ di forza, non giova molto all’insieme. Un disco più in linea con gli episodi più diretti avrebbe fatto di “.5: The Gray Chapter”, qualcosa di migliore e più convincente. Questi sono gli Slipknot di oggi, non un gruppo da buttare via, anche solo per la preparazione di tutti i musicisti (anche dell’ignoto nuovo drummer, comunque inferiore a Jordison), ma che va valutato prescindendo dal loro passato. Perché se invece prendiamo come termine di paragone i loro dischi passati, quelli a cavallo tra gli anni ’90 e ’00, gioiremmo molto poco. 
Un disco, questo, non prettamente deludente se preso in sé e per sé, ma lontano anni luce dalle loro cose migliori.

Recensione di: Sergio Vinci “Kosmos Reversum” 
VOTO: 69/100

Tracklist:
1.XIX – 3:10
2.Sarcastrophe – 5:06
3.AOV – 5:32
4.The Devil in I – 5:42
5.Killpop – 3:45
6.Skeptic – 4:46
7.Lech – 4:50
8.Goodbye – 4:35
9.Nomadic – 4:18
10.The One That Kills the Least – 4:11
11.Custer – 4:14
12.Be Prepared for Hell – 1:57
13.The Negative One – 5:25
14.If Rain Is What You Want – 6:20

www.slipknot1.com/

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