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IRON MAIDEN - The Book Of Souls

Full-length, Perlaphone
(2015)

Bene, è uscito il nuovo, atteso, album degli Iron Maiden. Non starò a scrivere righe e righe sul fatto che loro sono stati la mia prima band heavy metal a farmi innamorare di questo genere quando avevo solo nove anni, non vi stancherò dicendovi che li ho amati per molti anni e che tutt'ora sono ancora in una piccola ma importante parte del mio cuore. Devo solo essere obiettivo, ed essere obiettivi significa dire che questo disco è brutto, stanco, noioso. E non è noioso solo perchè dura più di un'ora e mezza, ma è noioso perchè le idee sono finite.

Tante volte ci si imbatte in discussioni su questa band, e tanti dicono che gli Iron Maiden sono morti dopo "Seventh Son Of A Seventh Son", e in un certo senso hanno ragione. Ma permettetemi di dire che gli album che sono usciti fino al 1995 sono dei capolavori in confronto a quello che è venuto dopo.  Soprattutto il tanto bistrattato "No Prayer For The Dying" adesso più che mai può essere considerato ancora tra i migliori lavori della Vergine di Ferro, e anche dischi al tempo deludenti come "Fear Of The Dark" e "The X Factor" devono per forza essere rivalutati. 
Gli Iron Maiden di oggi scrivono suite lunghe, ma lo sbaglio evidente è che lo fanno per ogni brano, ma il problema ancora più grosso è che non sapranno mai più scrivere un pezzo come "Rime Of The Ancient Mariner", nemmeno alla lontanissima. Oggi i Maiden non fanno schifo, ma la loro musica è diventata annacquata, le chitarre non graffiano più, e permettetemi di dire che la voce di Dickinson dà quasi fastidio, sia perchè enfatizza troppo ogni nota e sia perchè non azzecca una melodia vocale da decenni. E penso che in questo il suo brutto tumore che l'ha colpito recentemente non c'entri nulla, semplicemente ha stufato perchè ora canta male.

Comunque, il primo disco di questo "The Book Of Souls" non è tutto da buttare via, pezzi come "If Eternity Should Fail", "Speed of Light" e "The Red and the Black" si lasciano ascoltare con piacere, nulla di trascendentale sia chiaro, ma nemmeno da storcere il naso più di tanto. Di contro abbiamo episodi inutili come "When the River Runs Deep" che partono in quarta e quasi ci fanno sognare un ritorno ai vecchi fasti o perlomeno a qualcosa di simile, ma niente, tra riff riciclati e Dickinson che miagola, i pezzi non decollano, rimangono fermi, statici, privi di verve. E' chiaro che essendo già arrivati quasi alla fine del primo disco (essendo questo album doppio), possiamo già cominciare a trarre qualche prima impressione e conclusione, e purtroppo non c'è molto da gioire. La title track si apre con arpeggio di chitarra malinconico niente male, per sfociare successivamente in una canzone che avrei visto bene in un album come "The X Factor". Ha quel feeling cupo e solenne di canzoni come "The Sign Of The Cross", ma mi devo ripetere dicendo che siamo lontani anche da quegli standard, che a sua volta erano lontani da quelli dei primi album. Anche qui Dickinson appare forzato e a tratti fuori luogo, i ritornelli sono sotto tono e anche il resto scende nell'oblio con l'andare dei minuti. Salvataggio in corner verso il finale con una specie di omaggio a "Flesh Of The Blade".

A fatica rimetto su il secondo disco, provato dall'ennesimo ascolto del primo, ma dovendo scrivere la recensione devo farlo per forza di cose. Tutto sommato "Death Or Glory" si fa apprezzare per un buon tiro e per una durata non chilometrica, ma Dickinson davvero comincia non solo a non convincere, ma ad irritare, la sua voce è diventata col tempo più nasale e non azzecca una melodia che sia una. Con un altro cantante più ispirato, probabilmente, questo album non sarebbe stato un capolavoro, ma nemmeno la mezza ciofeca che ormai possiamo dire che sia. Le chitarre, pur non essendo ispirate come un tempo, sono le uniche che sorreggono degnamente l'impalcatura delle canzoni, con begli assoli e arrangiamenti. Ma tutto questo non può bastare. Vogliamo parlare della produzione di Kevin Shirley? Ok parliamone: fa schifo. Suoni impastati, batteria che quando va sui tom sparisce in dei rimbombi tipo sacchi di patate che cadono in un dirupo. Vogliamo parlare del drumming di Nicko? Non l'ho mai apprezzato tantissimo, ma dopo 30 anni di ride in primo piano, di ticchettii sui piatti, di alzate di charleston inutili, avrebbe anche rotto. Lui non è mai migliorato, è rimasto lo stesso di 30 anni fa, il suo stile è poco fantasioso e antiquato, oggi possiamo davvero dirlo. E non ha spinta, gambizza i brani che già di loro non funzionano.

Mi spiace per i tre chitarristi. Ho sempre amato il loro lavoro negli Iron Maiden, tranne Gers, che non ho mai capito bene quale ruolo abbia nella band se non quello di non essere stato cacciato per pietà 15 anni fa. Mi sembra un po' come quei parlamentari che si sono seduti in Parlamento per un giorno e prenderanno pensioni di lusso per il resto della vita. Però almeno Gers qualche brano l'ha firmato e il suo piccolo dovere lo fa, ma diciamocelo, se non ci fosse non se ne accorgerebbe nessuno.
E spiace anche dire che il secondo disco probabilmente è più noioso del primo. Non riesco davvero a scorgere un pezzo meritevole al 100% ma solo tanta stanchezza. Ditemi se un brano come "The Man of Sorrows" non sia osceno e che se fosse stato proposto anche solo 15 anni fa non sarebbe stato aspramente criticato. Non funziona nulla, è questo il punto. Questo disco è come giocare a calcio facendo il "catenaccio", magari eviti la peggior figura, ma sempre schifo farai. La gente non dovrebbe pagare per vedere dei catenacci, nè nello sport, nè in nessun ambito. Si arriva alla chiusura con la chilometrica "Empire Of The Clouds", che prima di entrare nel vivo ha una introduzione di tipo cinque minuti, tra chitarre acustiche, pianoforte e la voce di Dickinson, stavolta meno fastidiosa del solito e stranamente rimembrante quella del bistrattato Blaze Bayley. Comunque, in parole povere, si tratta della solita semi-ballad in salsa hard rock, solo stiracchiata per 18 (diciotto!!!) minuti. 

Questa è la storia di una band che rispetterò fino alla morte, ma è anche la storia di una band che non ha più nulla da dire e pretende di fare suite pseudo-progressive e il cui leader Steve Harris nelle interviste afferma che sarebbe impietoso proporre ai fans un altro "The Number Of The Beast". A mio avviso la pietà l'hai persa tu, caro Harris, e pure i tuoi compagni di merende, perchè un disco del genere potrebbe davvero provocare seri danni psichici ai tuoi fans. Questa è una tortura a fuoco lento, non un disco. 
Ascoltate me, dimenticatevi chi erano gli Iron Maiden e non agite di nostalgia, non fatevi piacere per forza questo album. Anche il tanto "sfigato" Paul Di'Anno ha appena sfornato un disco a nome Architects Of Chaoz che pur nella sua classicità, surclassa i Maiden attuali. Non abbiate i paraorecchi, comprate musica di qualità, date una chance a nuove bands e non sprecate soldi in questo album, che forse vale la pena avere solo per completare la collezione, ma solo quando sarà in offerta a €4,99 da Mediaworld.

Recensione di: Kosmos Reversum
Voto: 45/100

Tracklist:
Disc 1
1. If Eternity Should Fail 08:28 
2. Speed of Light 05:01 
3. The Great Unknown 06:37 
4. The Red and the Black 13:33 
5. When the River Runs Deep 05:52  
6. The Book of Souls 10:27 

DURATA TOTALE: 49:58 

Disc 2
1. Death or Glory 05:13 
2. Shadows of the Valley 07:32 
3. Tears of a Clown 04:59 
4. The Man of Sorrows 06:28 
5. Empire of the Clouds 18:01 

DURATA TOTALE: 42:13 

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