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SOLSTICE "White Horse Hill" (Recensione)


Full-length, White Horse
(2018)

In cima alla lista degli album piĆ¹ metallici dell'anno, ritroviamo di sicuro l'ultimo lavoro dei Solstice. Ed ĆØ davvero strano che un disco del genere provenga dal Regno Unito, che pur avendo creato il genere lo ha poi praticamente abbandonato. Quello suonato dai Solstice ĆØ proprio l'incarnazione primigenia del metal, quello lento, pesante e spesso; heavy doom, in una parola, con una marcatissima impronta epica che richiama quanto di meglio fatto dai Candlemass – in piĆ¹ di una occasione il frontman adotta un approccio un po' alla Messiah Marcolin, senza essere troppo legato al clichĆ© originale. 

E mentre scorrono i riff di “White horse hill” ci rendiamo conto di quanto sia mancata una band del genere. Sono passati ben venti anni dall'ultimo full-length, quel “New dark age” accolto con unanime favore dalla critica e dal pubblico, ed il silenzio discografico era stato rotto solo cinque anni or sono con l'ep “Death's crown is victory”. Anche se la band si era ufficialmente riformata nel 2007, si tratta comunque di un bel lasso di tempo, che fortunatamente non ĆØ stato speso invano, se dobbiamo giudicare dalla maturitĆ  e dallo spessore dei brani. Solo sei pezzi (piĆ¹ intro) in tre quarti d'ora, ma bisogna riconoscere che l'album non ĆØ affatto pesante o noioso all'ascolto, grazie ad un songwriting che unisce con sapienza quadrato furore metallico ed altisonante melodia. 
La mancanza di veri e propri ritornelli non riduce di un grammo la fruibilitĆ  della loro musica, che ti avvolge le orecchie come un manto che copre tutti i sensi, proiettando l'ascoltatore davvero in un'altra dimensione, fatta di saghe epiche ed antiche leggende e blah blah blah; ĆØ vero, sembra banale da dire perchĆ© esistono tantissimi gruppi che si promuovono cosƬ, ma ben pochi hanno lo stesso spessore: i Solstice, invece, sono the real thing. 

E tutto questo nonostante la formazione sia praticamente stata rivoluzionata rispetto agli esordi discografici, con il solo Richard Walker alla sei corde superstite della formazione originaria; ma quando le idee sono chiare e si sanno scegliere i compagni di viaggio, il successo ĆØ assicurato. Unico appunto, nel corso degli anni il suono complessivo si ĆØ raffinato, non tanto in termini compositivi quanto per le scelte di produzione, e forse qualcuno potrebbe considerare il tutto un po' troppo laccato. Pure io avrei preferito un minimo di rozzezza in piĆ¹, a livello di resa della distorsione, ma sono davvero solo dei dettagli e posso pure capire che l'ascoltatore medio possa invece preferire questo tocco piĆ¹ pulito, che non toglie poi molto della potenza sonora sprigionata dai loro brani. Speriamo solo di non dover aspettare altri venti anni... 

Recensione a cura di: Fulvio Ermete
Voto: 78/100

Tracklist:

1. III 02:54 instrumental
2. To Sol a Thane 08:15
3. Beheld, a Man of Straw 02:45
4. White Horse Hill 08:51
5. For All Days, and for None 07:21
6. Under Waves Lie Our Dead 12:48
7. Gallow Fen 04:00

DURATA TOTALE: 46:54

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