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IDOLATRIA "Tetrabestiarchy" (Recensione)


Full-length, Signal Rex 
(2020) 

A cinque anni di distanza dal loro album di debutto "Breviarum Daemonicus Idolatrorum", i friulani Idolatria tornano sulla scena con un secondo atto di pura diabolica blasfemia nelle cui gelide note risplende illesa la stella nera del metallo più spietato e brutale, arricchita stavolta da un'evidente evoluzione nel sound, con numerosi cambi di tempo e di atmosfere a rendere l'opera ancor più nera e funesta. Il black metal domina ogni singola nota delle sei tracce che compongono il nuovo lavoro del quartetto di Pordenone, risultando quanto mai oscuro e infernale; è tuttavia un black metal più ricercato e aperto a momenti di cruda riflessione, che altro non sono che anticipazioni di ben più iraconde burrasche che travolgono colui che ingenuamente si lasci intorpidire da tali illusorie tregue. Gli Idolatria sono cresciuti e maturati e non trovano più nella mera velocità e nell'aggressività del loro sound le uniche armi di battaglia, ma riescono a incantare e sorprendere anche ricorrendo ad atmosfere più lugubri e rallentate, spesso tendenti al doom, perfino melodiche a tratti ma mai spogliate della loro tenebrosità. Le chitarre dominano la scena, distorte e taglienti seppur di quando in quando quasi armoniose, così come la batteria un tempo lanciata in un'eterna battaglia di furia e aggressività sembra adesso capace di decelerare fino quasi a fingersi morta, cavalcando atmosfere funeste e riflessive prima di una nuova tempesta. 

Rispetto al debut album troviamo un cambio di formazione, che vede il bassista Maeficus assumere anche il ruolo di cantante in sostituzione di Atrum, che lascia il posto al nuovo arrivato Iracundus, nel ruolo di seconda chitarra; il sound si rivela così più massiccio e definito, il riffing più vario e ricercato e la batteria di Hircus fuoriesce dai canoni monotematici del debutto per abbracciare cambi di tempo e di ritmica mai scontati, ma alquanto prolifici. Anche dal punto di vista delle liriche riscontriamo una netta maturazione, passando dalle tematiche prettamente sataniche e anticristiane dell'esordio alla mistica ed occulta adorazione di divinità ancestrali e antropomorfe, raffigurate nello stesso artwork dell'album, che vede i quattro tetrarchi dell'Antica Roma al comando dell'imperatore Diocleziano assumere forme animalesche e bestiali in una quanto mai sinistra riproduzione del "Monumento dei Tetrarchi" di piazza San Marco a Venezia. La stessa tracklist comprende, escluse intro ed outro, un totale di quattro brani di medio-lunga durata (tra i sei e gli otto minuti) dedicati alle stesse entità antropomorfe della copertina: il serpente, la nottola, il capro e l'avvoltoio. 

Analizzando il lavoro da un punto di vista prettamente musicale, nei suoi trentaquattro minuti di durata si rivela un'opera diabolica e impetuosa, a tratti epica e talvolta tragica, che si adagia sopra acque tumultuose oscure quanto la notte più nera: la breve introduzione "Glorious Praise to the Tetrarchs", con le sue atmosfere funeree scandite da un lugubre suono di campane, saluta i quattro imperatori di Roma fungendo da anteprima al crescendo iniziale di "Serpent - Father to the Darkness", che esplode in una furia blasfema prodotta da chitarre decise e taglienti che splendidamente duellano con una batteria isterica, che alterna sfuriate quasi death/black a rallentamenti al limite del doom, il tutto arricchito da un sottofondo di cori sul finale a donare al brano un'essenza assolutamente epica. "Noctule - The Emperor of Scourge" colpisce invece per la sua immediata veemenza, rigettata da una batteria martellante accompagnata da un cantato tetro e infernale e da chitarre assai cupe, che danzano poi su note più alte e stridenti adagiandosi in un finale semi-acustico. 

La stesso approccio riflessivo lo troviamo in apertura della quarta traccia "Goat - The Servant of Underworld", ma è solamente illusorio poichè un crescendo con tratti melodici ed epici la conduce su frontiere dannatamente impervie, che si interromponono in un nuovo rallentamento dai contorni quasi funeral doom. È' il momento di "Vulture - The God of Last Rites", scelta come brano di lancio dell'album, che alterna lunghi tratti black/doom a sfuriate senza possibilità di salvezza, armate di un cantato quanto mai opprimente e di un riffing tagliente che raggiunge vette elevatissime danzando impetuosamente con la batteria, prima che l'epicità dei cori ad libitum spalanchi le porte di un finale che riprende, nell'outro "Vibrant Flare of Their Coming", l'aura tetra e sinistra dell'inizio, chiudendo ciclicamente l'ode agli Dèi antichi senza volto e senza nome, protagonisti indiscussi dell'intera release.

"Tetrabestiarchy", in uscita il 4 settembre per l'etichetta portoghese Signal Rex, è un viaggio nell'oltretomba più cupo e profondo, musicale e spirituale, che non lascia indifferenti ma stravolge nell'impeto e nella drammaticità, ponendo l'ascoltatore a ridosso di un instabile equilibrio tra il mondo dei morti e quello dei vivi, tra la luce e l'oscurità, destinato a danzare in eterno a cavallo dei due mondi senza mai trovar dimora. 

Recensione a cura di Alessandro Pineschi
Voto: 75/100

Tracklist:
1. Intro - Glorious Praise to the Tetrarchs
2. Serpent - The Father of Darkness
3. Noctule - The Emperor of Scourge
4. Goat - The Servant of Underworld
5. Vulture - The God of Last Rites
6. Outro - Vibrant Flare of Their Coming

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