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RUSH "2112" (Recensione)


Full-length, Mercury Records
(1976) 

Parlare di un disco dei Rush è impresa titanica, inquadrarlo nell'era moderna rispetto al contesto sociale e musicale dell'epoca è opera ancor più ardua. Al tutto aggiungiamo che di per sè Geddy Lee e compagni non hanno mai dato punti di riferimento specifici all'interno della loro proposta, rendendola pertanto ancora più magica, pregna di mille sfaccettature capaci di emozionare come pochi. Questi sono i Rush, prendere o lasciare: una band che per certi versi ha saputo sempre dividere, chi li adora, chi li odia, poco spazio per le mezze misure. Anche il sottoscritto è riuscito a comprendere quanto lasciato ai posteri dal combo canadese solo dopo diversi anni e tanti album divorati; è solo creandosi un background musicale particolarmente ampio che si può realmente entrare in tutto e per tutto con la testa e l'anima all'interno della proposta musicale dei Rush. 

Ma doverosi discorsi introduttivi a parte, andiamo ad analizzare il contesto musicale in cui si presentò questo "2112", il primo vero grande album della band canadese. Anno 1976: il rock duro inizia ad entrare all'interno di una meritata dimensione mainstream, lontana da pregiudizi di sorta e soprattutto da quell'aura di diffidenza che aveva creato nei primi anni '70. Esaurita l'onda iniziale di Black Sabbath e Deep Purple, seguendo le evoluzioni stilistiche di band di rango come i Led Zeppelin, l'hard rock inizia a conoscere il proprio profilo più barocco e pomposo, con i Rainbow che incidono il loro capolavoro "Rising", i Black Sabbath che entrano nel tunnel della crisi con la pubblicazione del mediocre "Technical Ecstasy", mentre il rock diventa sempre più popolare grazie alle nuove firme Judas Priest, Scorpions e Thin Lizzy. Di contro, oltreoceano c'è una band con tre lavori pregevoli alle spalle ma forse troppo legati al classico sound zeppeliniano della prima ora, ma le cui potenzialità si iniziano ad intravedere: dopo l'omonimo debutto del 1974, un album di onesto hard rock classico, i successivi "Fly by Night" e "Caress of Steel" entrambi targati 1975 iniziano a far intravedere le potenzialità della band, in particolar modo l'ultimo arrivato in cui i due lunghi pezzi "The Necromancer" e "The Fountain of Lamneth" rappresentano solo un piccolissimo spunto di quanto Lee e compagni faranno ascoltare in futuro, facendo storcere il naso alla casa discografica che non vedeva certo di buon occhio il passaggio ad un sound meno "commerciale" e più articolato. 

La band è dunque di fronte ad un bivio, proseguire sul proprio sentiero evolutivo rischiando il contratto o attenersi alle linee guida dell'etichetta, standardizzando il sound in un periodo in cui inizia a prendere piede il punk con ovvi risvolti commerciali sulle band più classiche. Un salto nel vuoto che porta alla fine ad uno dei più grandi capolavori della storia del prog rock mondiale, che in un colpo solo inizierà da un lato a marcare la linea verso la successiva costante linea evolutiva dei Rush, dall'altro a far ricredere l'etichetta stessa con il pubblico (in particolare quello americano) che tributerà il doveroso successo ai canadesi. "2112" seppur per certi versi acerbo rispetto agli album che lo succederanno, è un capolavoro senza tempo; uno sfogo artistico a 360 gradi, se si considera che inizieranno ad entrare nella proposta della band anche le prime tematiche futuristiche e romanzesche. Ed è proprio un romanzo alla base del concept principale del lavoro che pone indubbiamente le sue radici sulla lunga title-track, una suite di ben venti minuti divisa in sette atti, che prende ispirazione dagli scritti di Ayn Rand scrittrice e filosofa statunitense di cui il batterista Neil Peart è grande fan; un pezzo di orwelliana memoria, basato sul racconto di un'era futura in cui un governo assoluto rende gli uomini simili ad automi, mortificandone ogni forma di pensiero. 

Sin dai primi minuti della fuga introduttiva "Ouverture" interamente strumentale, si nota il cambio di passo della band, orientata a creare pezzi intricati in cui il magico trio chitarra-basso-batteria si fonde alla perfezione, per sfociare nel secondo atto della suite in cui subentrano le vocals acute e graffianti come mai prima d'ora di un Geddy Lee tirato a lucido, che interpreta i sacerdoti che governano l'universo in "The Temple of Syrinx"; la suite prosegue con "Discovery", pezzo decisamente più soffuso, basato inizialmente su una chitarra acustica che diventa arma di consapevolezza per gli esseri umani, fino a sfociare nell'assolo finale di "Presentation" che poi apre le danze per il crescendo finale che dapprima torna sui livelli più intimistici di "Soliloquy" per poi esplodere in "Grand Finale", in cui a farla da padrone sono i tempi dispari scanditi in particolar modo dalla batteria di Neil Peart, forse così mai in evidenza in passato e degno antipasto di quanto uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi lascerà ai posteri. Potrebbe bastare il racconto della suite che da il nome all'album per carpire tutto il fascino e la magniloquenza di "2112", ma sarebbe riduttivo oltre che ingiusto per il resto delle composizioni, che si attestano invece come in passato su pezzi più corti e diretti ma non per questo meno intricati. La splendida "A Passage to Bangkok" introduce affascinanti inserti orientaleggianti, "The Twilight Zone" sottile e delicata mette in evidenza le incredibili doti interpretative di Lee dietro al microfono, mentre "Lessons" torna a rifare il verso ai Led Zeppelin. Non manca la ballata ricca di pathos scandita con la semplice quanto splendida "Tears", mentre la conclusiva "Something or Nothing" rappresenta l'ideale idillio tra sound accattivante e fughe strumentali di classe, in cui per la prima volta prende il sopravvento la chitarra di Lifeson (autore anche del testo perfettamente interpretato da un solito impeccabile Geddy Lee) rispetto al resto del lotto. 

"2112" rappresenta insomma l'album della svolta nella carriera dei Rush, un lavoro probabilmente leggermente inferiore ai successivi capolavori ma sicuramente il più importante ed influente di tutti, uno snodo fondamentale nella carriera di una band irripetibile che nel corso degli anni scriverà pagine indelebili nella storia della musica. 

Recensione a cura di Luca Di Simone
Voto: 90/100 

Tracklist:
1. 2112
2. A Passage to Bangkok
3. The Twilight Zone
4. Lessons
5. Tears
6. Something for Nothing

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