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OZZY OSBOURNE "Patient Number 9" (Recensione)


Full-length, Sony Music
(2022)

Cosa aspettarsi da un nuovo capitolo del Madman nel 2022? Alzi la mano chi, nell'attesa dell'uscita del tredicesimo album solista di uno dei capostipiti della scena heavy metal, non si sia posto questa semplice domanda. E' certo che le ben settantaquattro primavere del buon Ozzy, una condizione fisica piuttosto precaria, che l'ha portato più volte a posticipare le date del tour mondiale, unite ad una produzione discografica pressochè inesistente nell'ultimo decennio fatta eccezione per l'album postumo dei Black Sabbath, sicuramente non lasciavano presagire nulla di particolarmente entusiasmante. Ma il grande merito di Osbourne, è stato sempre quello di sapersi riciclare, e stare per certi versi al passo coi tempi in un contesto musicale in continua evoluzione. Una capacità innata, unita ad un saggio e meticoloso management che l'ha sempre sostenuto, capace di portare il proprio nome ben oltre quelle che sarebbero state le proprie potenzialità "tecniche". Per farla breve, Ozzy ha avuto da sempre il grande talento di saper sfruttare l'onda dei musicisti che lo seguivano, arrivando tuttavia a brillare sempre di luce propria, riuscendo ad andare anche ben oltre gli eccessi di un personaggio che spesso e volentieri faceva parlare di sè più per l'attitudine distruttiva che per lo spettacolo sul palco. 

"Patient Number 9" rappresenta dunque il tredicesimo capitolo della saga del rocker di Birmingham, che si avvale per l'occasione di un vero e proprio all-star team, arrivato a plasmare un lavoro di tutto rispetto, in grado di snocciolare tredici brani per oltre un'ora di musica, di ottima fattura, senza riempitivi o senza brodaglie del caso. Merito sicuramente dei tanti artisti che hanno prestato la propria opera al fianco del buon Oz, e possiamo citare i vari Eric Clapton, Jeff Beck, Tony Iommi, Mike McCready, Zakk Wylde, Chad Smith, Rob Trujillo, ed addirittura il compianto Taylor Hawkins, drummer dei Foo Fighters che ha registrato tre pezzi, presenti sull'album, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa avvenuta a marzo di quest'anno. Ma sarebbe ingeneroso, e per certi versi ipocrita, ridurre questo esaltante ritorno alle scene di Ozzy, al solo merito dei suoi compagni di viaggio, ce lo insegna la storia del resto, che è quella di un tizio che a settantaquattro anni e mille acciacchi, ha ancora voglia di parlare di sè stesso nei propri album, ed ha ancora voglia di graffiare, malgrado le aspettative da parte del sottoscritto non fossero le migliori dopo il controverso "Ordinary Man", che due anni fa interrompeva un silenzio discografico durato la bellezza di dieci anni. In quell'occasione, le atmosfere estremamente intimistiche e soffuse di gran parte dei brani, non rendevano certo l'idea di un lavoro di Ozzy, e quantomeno stendevano un malinconico velo su quello che sembrava essere il canto del cigno del Madman. Nulla di tutto questo. 

Ho fatto una indispensabile premessa per riassumere quella che è stata la carriera di Ozzy dal 1980 ad oggi. Ozzy Osbourne per certi versi è stato, a parere del sottoscritto, uno dei "fuoriclasse" della scena heavy metal mondiale. Una sorta di Re Mida, capace in ogni singolo episodio della propria carriera di circondarsi del "meglio", musicalmente parlando, e di andare a toccare sempre le corde giuste per una proposta che ha saputo rinnovarsi nel tempo, anno dopo anno. Come dimenticare i capolavori degli esordi? A partire dal momento di maggior splendore coincidente con l'heavy metal pomposo dei primi album, valorizzati da musicisti semisconosciuti ai tempi, del calibro del compianto Randy Rhoads o di Jake E.Lee: gente in grado di rendere ogni singolo album di Ozzy un capolavoro, ed al tempo stesso di esprimere tutta la propria creatività, di fatto, diventando musicisti di fama mondiale. Di pari passo andava la sua innata capacità di evolvere il sound verso quelle che erano le tendenze del momento: le atmosfere tipicamente 80's di "The Ultimate Sin", la svolta melodica di "No Rest for the Wicked" e "No More Tears" nei tempi di massimo splendore dell'hair metal, fino ad arrivare a quel "Down to Earth" targato 2001, in cui il sound diventò improvvisamente potente, massiccio e più moderno in piena epoca nu-metal. 

Perchè faccio quest'opera di recupero dei precedenti capitoli? Perchè un album di Ozzy va sempre contestualizzato e, facendo un rapido ma necessario passo avanti, per giustificare il motivo per il quale il sottoscritto vede in "Patient Number 9" il miglior album dai tempi dell'appena citato "Down to Earth". Per entrare nel vivo faccio un ultimo excursus, riferendomi agli ultimi lavori di Oz: sgombrando il campo da "Ordinary Man" che rappresenta alla luce del nuovo lavoro più un capitolo intermedio che un album vero e proprio, sulla scia di quello che Ozzy fece con "Under Cover" nel 2005, gli ultimi album del Madman sono stati in assoluto i più deludenti della sua discografia, e parlo di "Black Rain" (2007) e "Scream" (2010). Album che mancavano della giusta personalità, delle idee, in cui uno Zakk Wylde ormai sul piede di partenza prima, ed un Gus G. virtuoso sì, ma decisamente freddo rispetto all'attitudine normale di una band di Ozzy, forgiavano due lavori decisamente sotto tono, in un contesto musicale che iniziava a perdere le proprie certezze, tanto da far forse perdere la bussola anche al vecchio Osbourne. Una sensazione di smarrimento evidente, coincisa non a caso con il seguente lungo silenzio discografico, derivante probabilmente anche dai suoi problemi di salute, ma troppo assordante nei suoi dieci anni di durata. "Patient Number 9" rappresenta invece una sorta di anno zero, un ritorno che sicuramente non farà gridare al miracolo, ma che senza ombra di dubbio ci mette in mostra un Ozzy più libero, che non si pone vincoli o comunque non segue una linea ben precisa, forgiando tredici brani molte volte diversi tra loro in termini di sonorità, ma in ogni caso accomunati dalla giusta attitudine che ci si aspetta da un lavoro di Ozzy Osbourne. Merito sicuramente dei tanti musicisti che vi hanno preso parte, molte volte provenienti anche da mondi lontani da loro, ma merito anche ad Ozzy che in poco più di un'ora di musica tira fuori il meglio. 

C'è tanta varietà in questo "Patient Number 9", non ci sono riempitivi, ci sono tredici brani che variano dal pezzo di sicura presa del calibro della title-track, in cui Osbourne disegna un ritornello che si stampa nella testa al primo ascolto, e Jeff Beck tesse una tela chitarristica tagliente ma al tempo stesso "ruffiana" il giusto, fino a toccare corde più blues (e non potrebbe essere altrimenti) in "One of Those Days" dove nientemeno che Eric Clapton presta la sua slow-hand al servizio del Madman. Non poteva mancare neppure la leggenda, il compagno di viaggio di una vita, il buon Tony Iommi protagonista di due brani di assoluto valore, in cui Ozzy ci ricorda come sia ancora in grado di cavalcare anche le tele oscure dal buon caro vecchio Sabba Nero. Due pezzi che rappresentano una sorta di continuazione di quello che è stato "13" album postumo dei Black Sabbath pubblicato ormai già diversi anni fa; "Degradation Rules" dura e martellante era già nota per essere stata pubblicata come singolo pochi giorni prima dell'uscita dell'album, ma è soprattutto nell'oscura "No Escape From Now" che scatta l'esaltazione, in un brano che riesce a mantenere un'aurea oscura e plumbea nel contesto di un album che suona 100% alla Ozzy. E' soprattutto la prima parte del lavoro quella che presenta i principali spunti artistici dell'album: nella compatta "Immortal" presta la sua opera alla chitarra Mike McCready (Pearl Jam), così come si rinsalda il rapporto con il caro "figlioccio" Zakk Wylde in altri capitoli come "Parasite" e "Mr.Darkness" in cui è un maggior groove a farla da padrone. Non che la seconda parte dell'album sia da buttare, anzi, ma diciamo che è proprio nel finale che sono relegati i brani più ordinari, aldilà della già citata "Degradation Rules". Si chiude così il lavoro con la compatta "Dead and Gone" altro brano che fa del refrain il proprio punto di forza, per andare poi a chiudere con l'orecchiabile "God Only Knows" in cui è il già citato e compianto Hawkins protagonista dietro le pelli, seguita dalla breve "Darkside Blues" un pezzo piuttosto irrilevante che funge più da 'outro' che da brano di per sè, non a caso un pezzo scartato dal precedente "Ordinary Man". 

A completare l'organico stellare che ha preso parte alla produzione di questo "Patient Number 9" non va dimenticata la produzione, a cura di Andrew Watt, così come la partecipazione alla produzione del video promozionale della title-track, curata nientemeno che da una leggenda del calibro di Todd McFarlane, giusto per far capire come il buon Ozzy ed il suo entourage, non abbiano lasciato nessun dettaglio al caso in questo ritorno discografico studiato, voluto e lavorato. Stiamo parlando insomma di un lavoro più che degno, che sicuramente non farà gridare al miracolo, ma che ci riconsegna un Ozzy tirato a lucido, e soprattutto un album che come già detto rappresenta un salto in avanti rispetto alle ultime insipide produzioni, ditemi voi se è poco per un signore che, tra poco più di un mese, spegnerà settanquattro candeline ed ancora riesce a tirarsi dietro orde di fans di tutte le età e generazioni. 

Recensione a cura di Luca Di Simone
Voto: 73/100

Tracklist:
1. Patient Number 9 
2. Immortal 
3. Parasite 
4. No Escape from Now 
5. One of Those Days 
6. A Thousand Shades 
7. Mr. Darkness
8. Nothing Feels Right 
9. Evil Shuffle 
10. Degradation Rules 
11. Dead and Gone 
12. God Only Knows 
13. Darkside Blues

Line-up:
Ozzy Osbourne - Vocals
Zakk Wylde - Guitars
Rob "Blasko" Nicholson - Bass 
Adam Wakeman - Keyboards, Guitars 
Tommy Clufetos - Drums

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