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KK’S PRIEST "The Sinner Rides Again" (Recensione)


Full-length, Napalm Records
(2023)

Ci sono quei gruppi di cui si è soliti dire “o si amano o si odiano”. Ecco, i Brummies più famosi del mondo borchiato non appartengono per forza a quella categoria (in cui spadroneggiano i Manowar, in tutta evidenza), quanto piuttosto a un'altra, più unica che rara: quella del bersaglio a tutti i costi, dell'astio, del risentimento e dell'adagio “io invece...”. Era così ai tempi dei sintetizzatori di “Turbo”, ma anche nell'epoca buia del PMRC e del delirante processo sul presunto messaggio subliminale “Do it!” presente su “Stained Class”, nonché all'epoca di “Jugulator”, allorquando Scheepers mise su i Primal Fear come risposta a quello che considerava l'eccessivo indurimento della band di cui avrebbe voluto far parte con tutto se stesso.

Ora, le parti si sono invertite ed è il buon Kenneth, eterno escluso dai fasti del nuovo millennio priestiano, a sputare risentimento nei confronti degli ex sodali a suon di metallo più borchiato che mai. Intendiamoci, nell'emisfero occidentale è ancora concesso a un musicista fare le scelte che più ritiene opportune, ma dinanzi a un disco chiamato “The Sinner Rides Again” [corsivo mio ovviamente, NdA], con in più un'opener dal titolo “Sons of The Sentinel” [idem, NdA] per non parlare del singolo “One More Shot At Glory” il dubbio di un po' di bile che cola verrebbe anche al più ecumenico tra gli headbangers. Figuriamoci a me, che sono reduce dall'illuminante lettura di “Heavy Duty”, l'autobiografia di KK Downing che alterna momenti di sicuro interesse (le origini del Prete di Giuda, tanto per dire) a momenti di puro risentimento addirittura precedenti alla reincarnazione del Prete più famoso delle West Midlands. In sostanza, sono mosse, atteggiamenti e particolari che uno accetterebbe da un emulo qualunque, da una band di metallo demenziale, per dire, ma non da chi quel suono ha contribuito a forgiarlo per quanto – a suo dire – ne sia stato depredato sin dai tempi in cui la parte del leone in fatto di assoli e di decisioni importanti venisse affidata all'ex sodale Tipton. Un po' come la storia degli attori dei CHiPs, che fuori dal set non si sopportavano e sul set si tolleravano a malapena.

Parlando di musica, non siamo dinanzi a soluzioni tipo “Storm of Blades” e neanche tipo “Heavy Metal Knibbles” (massimo rispetto per entrambe, eh!), ma l'impressione resta quella di un progetto che spiccherebbe volentieri il volo, se il suo mastermind si liberasse di una zavorra non da poco. Ora che il re è nudo e che abbiamo evitato l'effetto “vestiti nuovi dell'imperatore” possiamo analizzare francamente un disco che si basa sulla forza bruta e sul peso innegabile di due componenti chiave (Downing e Owens) per sciorinare, almeno sulle prime, una potenza di fuoco che però non ha ancora quelle solide fondamenta che ti aspetteresti da una coppia di pesi massimi del genere. Non aiuta il fatto che l'intro della già citata opener richiami molto, troppo da vicino quello della cosiddetta “originale” presente su “Defenders of the Faith”, in un rimando che vorrebbe essere concettuale ma che ha il sapore della farsa, almeno per come il disco si presenta nella sua prima parte. Va infatti detto che l'assalto, ora mitragliante ora all'arma bianca, di “Sons of The Sentinel”, “Strike of the Viper” e “Reap the Whirlwind” colpisce come un fendente ma lascia pochi strascichi, un difetto già rilevato nel primo disco della band.

Le cose non migliorano con gli episodi più rocciosi come “One More Shot At Glory” o la title track, mentre sullo stesso campo spiccano (e di gran lunga) episodi come “Hymn 66” o l'evocativa “Keeper of the Graves”, quasi helloweeniana nel suo incipit – no, non è una battuta! Ascoltate l'intro parlata per credere... Comunque sia, per entrambe ma anche per altri pezzi del disco non si può negare come una certa evoluzione “atmosferica” reminiscente di “Nostradamus” sia fondamentale per la struttura, laddove “Pledge Your Souls” rappresenta invece un episodio che guarda in avanti per davvero, con un gusto melodico per gli assoli che è la classica ciliegina sulla torta.

E Tim “Ripper” Owens? Beh, la sua performance sin dall'inizio ha un approccio leggermente più ragionato, più da “Painkiller” che da “Jugulator”, per intenderci, per quanto quest'ultimo resti a mio parere l'album migliore su cui l'ugola americana abbia prestato la sua voce. Sarà il tempo a dirci se questi KK's Priest rappresenteranno una grossa occasione mancata o spiccheranno il volo – al netto di quanto in realtà il loro leader ambisca al suo posto accanto alle asce borchiate di Tipton, Faulkner e Sneap, o magari al posto di tutti e tre messi insieme, in una riedizione dei bei tempi con Al Atkins. Un po' poco per un ritorno sulle scene su cui avevo davvero scommesso all'epoca della nuova versione di “Beyond The Realms Of Death” realizzata con Owens e anche con Les Binks, uno dei grandi assenti in questo progetto.

Recensione a cura di: Francesco “schwarzfranz” Faniello
Voto: 62/100

Tracklist:
1. Sons of the Sentinel 
2. Strike of the Viper 
3. Reap the Whirlwind 
4. One More Shot at Glory
5. Hymn 66 
6. The Sinner Rides Again 
7. Keeper of the Graves 
8. Pledge Your Souls 
9. Wash Away Your Sins

Line-up:
A.J. Mills - Guitars
K.K. Downing - Guitars
Tim "Ripper" Owens - Vocals
Tony Newton - Bass
Sean Elg - Drums

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