Vuoi qui il tuo annuncio? Scrivi a: hmmzine@libero.it

AGALLOCH: Speciale (parte 2)

Eravamo rimasti all’analisi rapida della prima parte di Pale Folklore. Senza indugio riprendiamo, incontrando sulla nostra strada accidentata la strumentale Misshapen Steed seguita dal trittico Hallways of Enchanted Ebony, Dead Winter Days, As Embers Dress the Sky, probabilmente il corretto contrappunto alla sublime prima parte del full lenght. L’ultima di questa fonde, con estremo raziocinio, tutte le componenti musicali proposte dagli Agalloch, permettendo ad un cristallino coro di esplodere, sovrastando la leggera distorsione delle sei corde, la batteria in lontananza, la quale sembra provenire dai recessi delle foreste della Cascadia. Non curanti delle leggi dell’ammiccamento, i Nostri americani sfoderano una prestazione rasentando la perfezione, a partire dagli arabeschi solistici, i quali privilegiano la passione (in primis quando a cantare è la chitarra acustica), piuttosto che la fredda tecnica. Da sottolineare la voce femminile, angelica, in perenne contrasto con lo scream sussurrato di John. Una presenza eterea che collega il lavoro al capolavoro degli In the Wood…, quell’Omnio, in cui nella prima traccia si udiva, una figlia del cielo intonare pochi, ma intensi versi. Chiude l’opera, nel cui prodromo stormisce il vento, che da un’ora oramai è divenuto nostro sodale, The Melancholy Spirit, riassunta nel bellissimo distico qui riportato:

She had spoken to the dawn
Her words wisped in tongues of the wind 

E’ il racconto straziante di un amore concluso, terminato, funestato dalla malinconia per qualcosa che doveva essere ed invece, ineluttabilmente non sarà mai. La disperazione diviene protagonista, obbligando l’animo del compositore a lamentarsi dello svanire progressivo del volto della sua donna, o se interpretato in modo trascendente, alla dissoluzione di un mondo ancestrale, mosso dai principi della Natura, sostituito dalla blasfema macchina della modernizzazione, delle illusioni del progresso, soppiantato da una fiducia meccanizzata. Di conseguenza quello che rimane fra le mani dello spirito anelante, disperso e disperato, è la consolazione della malinconia, del ricordo di un passato glorioso. Scavando in profondità, è possibile rinvenire una vena epica, nella sua accezione maggiormente drammatica, quasi pessimistica. L'eroe, che trova requie trascinandosi nei boschi natali, unici a comprendere la sua ineffabile sofferenza. Svanito l'estremo incanto l'aria spirata attraverso i solchi dell'LP dei ragazzi del Montana, Pale Folklore ci lascia, ampiamente svuotati a livello emotivo.

Dovettero passare due anni prima di aggiungere alla bacheca una nuova uscita marchiata Agalloch. Essa apparse sul mercato il 28 maggio 2001, sotto forma EP, il famoso “ Of Stone, Wind and Pillor” che appagò momentaneamente le pulsioni dei fedelissimi della band statunitense. In sé il disco non presentava granchè di nuovo: una bellissima cover (già citata) dei Sol Invictus, quella Kneel to the Cross, affidata alla voce pulita dell'allora tastierista Shane Breyer, oggi insegnante di filosofia, le strumentali Foliorum Viridum e Haunting Birds, la celebre A poem by Yeats ed infine l'inedita title track. L'album in maggior parte acustico, in cui facevano capolino in modo irregolare chitarre elettriche dotate di lieve distorsione inoltre poneva in uso progressioni armoniche abbastanza simili, confermando sì le doti del gruppo, ma senza elevarli a status di divinità del genere.

Comunque, a mio parere, il prodotto colse appieno nel segno dando continuità alle visioni tetre, con però un finalismo consolatorio, prive di quel pessimismo cosmico che ammanta e sovente funesta numerosi lavori. Il loro talento nell'arrangiare i brani in modo tale che risultino perennemente piacevoli, intrisi della corretta dose di mistero e di fascino, qui forse più che in futuro, si nota con sommo godimento. In fondo il materiale a disposizione non era copioso, vedendo figurare nella lista delle tracce addirittura, come accennavamo, una cover, seppur eseguita magistralmente, un altro brano precedentemente rilasciato, un altro decisamente breve. Ma il picco della creatività i Nostri lo raggiunsero, per quanto riguarda l'EP sia ovvio, nell'episodio di chiusura, dominato dal testo del grande poeta inglese Yeats.


Costui, nato a Dublino il 13 giugno 1865, oltre ad essere un membro dell'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, a cui venne iniziato fra il 1887 ed il 1890, fu un letterato interessato alle dinamiche del mito , prevalentemente appartenente alla sua cultura d'origine, di cui si era impossessato fin da bambino, educato da balie, intente a raccontare ad egli ed a suoi fratelli storie, racconti, tratti dalla mitologia irlandese. Di notevole interesse il suo essere assai vicino ai movimento indagatori dello spiritualismo, e del misticismo, nonché capace di un sincretismo di quest'ultimo, incamerando nella

sua poesia, grazie alla quale vinse il premio Nobel nel 1923, simboli mutuati dall'araldica cattolica, dalla kabbala, dalle culture germaniche e grecoromane. Un autore quindi per alcune peculiarità assimilabile alla lirica proposta da John, pure lui affascinato dalla componente irrazionale dell'universo.
La sua voce recita, eterea, cavalcando una semplicissima partitura di piano “The Sorrow of Love”, di cui riporto il testo integrale:

The brawling of a sparrow in the eaves, 
The brilliant moon and all the milky sky, 
And all that famous harmony of leaves, 
Had blotted out man's image and his cry. 
A girl arose that had red mournful lips 
And seemed the greatness of the world in tears, 
Doomed like Odysseus and the labouring ships 
And proud as Priam murdered with his peers; 
Arose, and on the instant clamorous eaves, 
A climbing moon upon an empty sky, 
And all that lamentation of the leaves, 
Could but compose man's image and his cry.

Tenete a mente le immagini prodotte dalla lettura: andranno a delineare un sublime idillio con la chiusura del successivo The Mantle, “A Desolation Song”, perfetta nel suo dilaniare l'anima tramite versi rapidi, scevri di ogni baluginar di speranza.
Una piccola curiosità: la parola pillor non esiste in inglese moderno. Molteplici congetture sono sorte discorrendo del significato del titolo: l'unica che sembra accettabile è associare il termine all'inglese antico “pillory”, traducibile con gogna, oppure calando il sostantivo nel testo dell'omonima canzone, assimilabile al moderno burden, ossia carico, onere, umiliazione. Tale ipotesi trova conferma collegando il testo in analisi con Dead Winter Days, nella quale si scoprono rilevanti parallelismi.

In breve ci avviciniamo al prossimo punto di svolta della discografia della band proveniente dall'Oregon, The Mantle, iniziato a registrare poco dopo l'uscita del precedente EP. Non causò nessuna rivoluzione, se non l'abbandono del tastierista, il quale aveva perduto in corso d'opera il suo interesse per la materia, scomparendo dal panorama musicale. Costruito su 9 tracce, per una durata complessiva di oltre un'ora, il disco segnò l'inizio dell'attività live dell'ensemble, successivamente all'ingaggio di un batterista, che rimarrà a vario titolo nella line-up fino al 2007. In aggiunta si modificò parzialmente il modo di rapportarsi del gruppo con la stampa, ora considerate e blandite. Di questo periodo, oltre al breve tour sulla costa statunitense, incominciato con la prima tappa, a Portland, Oregon, le primissime interviste con magazine specializzati, nelle quali il front-man John esponeva la filosofia stante dietro alle composizioni. Sul lato musicale, imbarcati alcuni ospiti rispettivamente a tastiere, fisarmonica, fiati e mandolino, i Nostri non sentirono l'esigenza di intaccare le partiture, proponendo un'evoluzione minima di Pale Folklore, incentrando ancora una volta i testi sull'amore perduto, sulla sofferenza, sulla solitudine, avvolgendoli però, in episodi dalla lunghezza sempre pronunciata, avvolgenti, capaci di ricreare quella magia che tanti di noi hanno esperito cibandosi avidamente dei pochi accordi profusi dalle chitarre del Conte Norvegese. La raggiunta maturazione tecnica fece il resto, confezionando un viaggio sui sentieri più impervi dei boschi della Cascadia, quasi ineffabile. Completamento delle virtù strumentali esemplificate dall'ugola espressiva di John, giunto a padroneggiare un profondo cantato pulito, suo tallone d'Achille se paragonato all'originalissimo screaming. Nel corso del cammino emergono, silenziose nell'ombra, influenze ricavate dalla musica marziale, che apporto considerevole donerà alla sesura delle parti di batteria, ora più incisive di un tempo, ora quasi sciamaniche, dal neofolk (è di quel periodo l'idea di collaborare con il genio del kantele, il finlandese Nest), dall'industrial (genere ben padroneggiato dai componenti dato un side-project).

Continua con l'analisi approfondita del disco........alla prossima puntata.

Articolo a cura di: Thanatos

Nessun commento