Vuoi qui il tuo annuncio? Scrivi a: hmmzine@libero.it

URIAH HEEP "Salisbury" (Recensione)


Full-length, Vertigo
(1971)

Metabolizzato il sound dell'album d'esordio, gli Uriah Heep nel febbraio del 1971 danno alle stampe "Salisbury" disco che rappresenterà la consacrazione di una band che da ora proseguirà con una vena compositiva ed un'attività discografica che difficilmente trova pari tra le bands dell'epoca. "Salisbury" è l'album della maturità, trascinato da un successo planetario del calibro della ballad "Lady in Black" (ripresa addirittura in Italia da Caterina Caselli trasformata nella celebre "L'Uomo del Paradiso") ma soprattutto della svolta musicale dei britannici, che smussano gli angoli e maturano il sound acerbo del precedente lavoro virando verso sonorità più progressive e sperimentali, fondendo il classico sound hard rock con un tappeto tastieristico di grande impatto e con la musica classica come testimoniato dalla title-track lunga 16 minuti in cui i britannici duettano con un'orchestra di ventisei elementi, portando a compimento il progetto ideato (ma poco riuscito) dai Deep Purple qualche anno prima, ed a cui arrivano altre bands solo diversi anni dopo.

Il contesto storico in cui si pone questo "Salisbury" è piuttosto chiaro: siamo nel 1971, i Black Sabbath hanno aperto un nuovo corso musicale l'anno precedente pubblicando due pietre miliari del calibro di "Black Sabbath" e "Paranoid" avvicinando folte schiere di fans ad un nuovo concetto di sound "duro" e tremendamente fuori dagli schemi. I Deep Purple con "In Rock" abbandonano il rock psichedelico degli esordi estremizzando il sound e duellando proprio con i Black Sabbath in un'esaltante dicotomia tra il riffing plumbeo e pesante di Iommi ed il barocchismo di Blackmore. Nel mezzo si ponevano proprio gli Uriah Heep bistrattati dalla critica e snobbati nella terra madre, ma indubbiamente una delle new-sensation più importanti dell'epoca che iniziava a lasciare proselti anche all'estero ed anche in Italia dove "Salisbury" ebbe un impatto importantissimo raggiungendo a fine anno la posizione numero 71 nell'elenco degli album più venduti.

In line-up si registra il primo di una serie di cambi con Keith Baker a sostituire dietro le pelli Nigel Olsson che cede alle lusinghe di un certo Elton John alla cui band legherà indissolubilmente il resto della propria carriera di drummer a testimonianza di come gli Uriah Heep forse più di ogni altra band dell'epoca avesse tre la proprie fila musicisti di calibro e valore internazionale, ma soprattutto portatori di mille influenze in grado di forgiare un sound praticamente unico. Sound che cambia come già detto nella intro, frutto del maggior peso portato nel songwriting dal poliedrico Ken Hensley famoso per i suoi passaggi tastieristici con la sua band ma vero e proprio polistrumentista oltre che mente pensante della band, qui nell'occasione alle prese anche con vocals ed utilizzo di strumenti "insoliti" per i generi così hard come clavicembalo, mellotron e vibrafono. Il risultato rappresenta una pietra miliare nella storia dell'hard rock, bistrattato dai cultori della scena prog dell'epoca (Emerson Lake and Palmer, Jethro Tull e compagnia varia) ma che in realtà ne portava avanti il concetto stesso, malgrado certo modo di suonare tipicamente progressive veniva fuori solo in quegli anni dopo la decadenza della psichedelia e del fenomeno hippies.

I brani complessivi sono sei, quattro nella prima facciata, due nella seconda chiusa dalla già citata suite "Salisbury" della durata complessiva di sei minuti. Ad aprire l'opera "Bird of Prey" uno dei classici della band, nonchè opera seminale per tutto quello che sarà il fenomeno power/epic di oltre un decennio dopo: un riffing durissimo cui fa da contraltare il tappeto sonoro disegnato da Hensley ed i vocalizzi al vetriolo di un David Byron tirato a lucido, molto più espressivo e libero che nell'esordio, che mostra di non avere assolutamente nulla da invidiare ad un certo Ian Gillan. Il pezzo nel suo incedere duro e compatto, con un'improvvisa accelerazione nella fase finale sembra interrompere completamente i ponti con il passato, regalandoci quasi del tutto una nuova band rispetto agli esordi, ma non sarà così per fortuna...Per fortuna, perchè i punti in comune con "Very eavy...very Umble" stanno proprio nella poliedricità sonora di una band che ha il merito di non guardare al genere, non guardare alla maniera o a cosa andasse per la maggiore a quei tempi, ma solo a dare sfogo a tutto il repertorio musicale di musicisti unici.

Ed è la soffice ballad "The Park" scandita dal falsetto di Byron e dal soffice retrogusto jazz del tappeto sonoro a spostare radicalmente le atmosfere per quello che può essere senza ombra di dubbio appellato come la "Planet Caravan" degli Uriah Heep riprendendone lo stesso sound ma spogliandolo dalle inflessioni dark dello storico pezzo dei Black Sabbath. In "Time to Live" si torna a correre: un pezzo fresco, deciso, dall'incedere classicamente hard rock, un pezzo che apre la strada alla già citata ballad acustica "Lady in Black" che chiude la prima facciata alla grande: il pezzo rappresenta un vero e proprio biglietto da visita per la band che si avvale per l'occasione della voce di Hensley e di un incidere interamente acustico dalle forti inflessioni celtiche. Un pezzo che in molti conosceranno e destinato a rimanere sempre attuale, tuttora utilizzato dagli Uriah Heep odierni (in cui resiste il solo Mick Box in grado di tenere in vita con musicisti eccezionali una line-up incredibilmente valida pur se diversa dagli esordi per ovvi motivi) per chiudere, alla grande, i propri concerti. La seconda facciata poi non fa che chiudere alla grande un capolavoro di dimensioni storiche con due pezzi: "High Priestess" più veloce e dinamica in cui è ancora Hensley a cimentarsi dietro il microfono, e la suite "Salisbury" cui occorre spendere ben più di una parola. 16 minuti di durata, l'intera line-up impegnata nel duettare (alla grande) con un'orchestra composta da ben ventisei elementi in cui le strumentazioni classiche si fondono alla perfezione col resto della strumentazione della band che si cimenta altresì in assoli da capogiro al suo interno.
Un'incedere drammatico, ridondante e sontuoso, nulla a che vedere con i pacchiani esperimenti proposti da diverse band fino a quel momento, destinato a fare storia. Improvvise fughe strumentali, break vari, ed uno spazio ben preciso per ogni singola strumentazione, dalle tastiere di Hensley ai vocalizzi di un Byron più virtuoso che mai, passando dal poliedrico chitarrismo di Box e la sezione ritmica del duo Newton-Baker da brividi.

"Salisbury" alla lunga non rappresenta e non rappresenterà il miglior lavoro degli Uriah Heep (anche se per molti lo è), ma rappresenterebbe senza ombra di dubbio il miglior lavoro di altre miriadi di band del genere o quantomeno affini che da un album di questo genere hanno tratto indiscusse ispirazioni. Un lavoro di grande fascino, di presa, emozionante, forgiato da una delle band più sottovalutate del pianeta che soprattutto negli anni successivi sempre con Byron dietro al microfono e con Hensley e Box tirati a lucido nello sfruttare la propria vena compositiva e le innumerevoli influenze continueranno a fare storia. Un album da recuperare senza sè e senza ma, da conservare con cura ed attenzione all'interno di ogni discografia personale che si rispetti.

Recensione a cura di Luca Di Simone
Voto: 90/100

Tracklist:
01. Bird of Prey (Box/Byron/Newton) – 4:13
02. The Park (Hensley) – 5:41
03. Time to Live (Box/Byron/Hensley) – 4:01
04. Lady in Black (Hensley) – 4:44
05. High Priestess (Hensley) – 3:42
06. Salisbury (Byron/Hensley/Box) – 16:20

WEBLINKS:
Homepage
Facebook

Nessun commento