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MEGADETH "The World Needs a Hero" (Recensione)


Full-length, Sanctuary Records
(2001)  

Non è facile parlare dei Megadeth, non è facile perché i Megadeth sono una grande band, una band amata ma che allo stesso tempo ha molti detrattori. Dire o affermare o negare, in egual misura, può portare a delle critiche feroci, quindi se si tratta questa band, bisogna farlo con la dovuta attenzione. Detto questo ho deciso di parlare di questo album per diverse ragioni: per i Megadeth questo fu un album di transizione ed allo stesso tempo di rottura rispetto ad un’evoluzione andata talmente avanti da aver perso la bussola, fino ad arrivare ad una preoccupante regressione compositiva, ossia Risk (1999). Quest’ultimo fu un vero azzardo, un azzardo non riuscito, i Megadeth che provano a fare i Metallica anni novanta. No, fu una mossa errata (Ovviamente è una mia personale opinione). E questa mossa portò la band, nella sua line up più amata, ad una rottura. Nick Mensa (R.i.p.) e Marty Friedman all’indomani di Risk erano fuori dalla band. Per un breve momento si è temuto che i Megadeth potessero mettere la parola fine alla loro storia. Ed invece un giorno ricomparvero sui nostri radar con una nuova line up ed un nuovo album dal titolo molto autoreferenziale, o forse semplicemente ironico, The World Needs a Hero. Un album che al di là del singolo “Moto Psycho” non ho mai considerato, ascoltato brevemente all’epoca e poi abbandonato sullo scaffale dei cd mai più ascoltati. Ma il tarlo di volerlo riascoltare mi ha inseguito per anni. In questi giorni ho acquistato la versione rimasterizzata e mi sono dedicato al suo ascolto. Un brutto album? NO. Un capolavoro? NO. E’ un album di transizione, un album che non abbandona le ultime sonorità, e cerca allo stesso tempo di compiere un passo indietro, o forse un passo avanti, provando a fondere le due anime della band, quella metal evoluta con quella più rock oriented. Il risultato non è affatto male. All’epoca ricordo che fu abbastanza bistrattato. Il nuovo millennio, passato lo stacco generazionale del grunge, ci ha portato in dote il suono ribassato del nu-metal, e si cominciava a vociferare di un ritorno al thrash, sia attraverso le vecchie glorie, che tramite nuove band, che si rifacevano e tutt’ora si rifanno a quelle sonorità. 

Siamo nel nuovo millennio e per la musica comincia una nuova evoluzione, quella dell’era digitale, quella evoluzione (?) che stiamo ancora vivendo. La nuova line-up vede di fianco agli storici Mustaine ed Ellefson (per lui questo sarà l’ultimo album, uscirà anche lui dalla band, per farvi rientro diversi anni dopo, ma questa è tutta un’altra storia) l’ingresso di due pezzi da novanta del metal, Al Pitrelli (Alice Cooper, Savatage) alla chitarra e Jimmy Degrasso (Y&T, Suicidal Tendences) alla batteria. I due nuovi entrati svolgono il loro compito in modo egregio, ma appunto svolgono un compito da turnisti. Da questo punto di vista, a mio avviso, manca quell’affiatamento, quell’amalgama che avrebbe potuto portare ad un sound meno freddo e a delle dinamiche più coinvolgenti. Ad uscire fuori dall’album è l’anima complessa di Mustaine, autore dell’intero lavoro, che in brani come la lunga e complessa “When” si lascia andare alla sua cervellotica scrittura, in modo apprezzabile, per uno dei momenti più elevati dell’intero lavoro. Sulla stessa lunghezza d’onda c’è anche “1000 Times Goodbye” con la sua atmosfera a tratti claustrofobica che molto deve a quel capolavoro di Countdown to Extinction. Allo stesso tempo i Megadeth citano se stessi in più frangenti, a volte in modo spudorato, come non citare la parte iniziale di “Dread And The Fuggitive Mind”, vi sarà facile indovinare a quale pezzo storico somiglia, altre volte in modo più sottile, come nel modo di riffare tipico alla Mustaine, come in “Burning Bridges”. Ma al di là di questo c’è la volontà di una band di rimettersi in piedi e ce la mette tutta per essere credibile. 

Tra i momenti in cui la fusione tra i diversi stili riesce meglio vi è di certo “Losing My Senses” in cui Mustaine sintetizza al meglio le influenze del suo stesso passato per un pezzo melodico ma duro allo stesso tempo, con un riffing ed una struttura pienamente riuscita. Sulla stessa linea si muovono i primi due brani “Disconnect” e l’eponima, che giocano tra melodia e un bel riffing mai particolarmente articolato, ma ben congegnato, con dei ritornelli azzeccati ed un buon sound di fondo. “Return To Hangar” lo si può interpretare in diversi modi, oltre che un omaggio ad uno dei pezzi ed a uno degli album più rappresentativi del thrash metal (Rust In Peace), può essere visto come un chiaro messaggio ai fans, siamo tornati a fare quello che volete ascoltare da noi. Ad essere sinceri questo è vero solo in parte! Il basso di Ellefson emerge nella strana, con qualche momento di deja vu, “Recipe For Hate…Warhorse” in cui ad emergere sono ancora le sonorità dei primi anni novanta, in un mix di tecnica, velocità e pesantezza che si intrecciano a momenti più tranquilli, in un classico esempio di musica complessa, proprio nel loro stile. Ma questo è di certo un punto di inizio per la seconda parte di carriera, un album di transizione in cui sono raccolte al meglio le influenze e tutti gli stili che fino a quel momento hanno contraddistinto la musica dei Megadeth. E questo dovrebbe bastare per recuperarlo oggi, un album che dopo vent’anni sulle spalle si ascolta ancora molto bene. Il singolo “Motor Psycho” recupera quel dinamismo che deve molto ad un album come Youthanasia, e risulta un brano dinamico, coinvolgente, orecchiabile, ma dal riffing pesante. Giusta la scelta di farlo uscire come primo singolo. Tra queste tracce c’è anche la miglior ballad dei Megadeth. Direte voi: Ballad? Certo, notevolmente superiore alla più famosa “A Tout Le Monde”, meno immediata, ma più intensa, con un Mustaine che canta ed impersona bene le atmosfere. Un brano davvero coinvolgente, ascoltate e poi mi saprete dire!!! 

Come bonus è presente una seconda ballad (Coming Home), anch’essa riuscita pienamente, ma probabilmente esclusa all’epoca della pubblicazione per evitare un eccessivo rilassamento del sound generale. Vista la copertina, letto il titolo, ascoltati i proclami, all’epoca dell’uscita ci si aspettava un ritorno al passato, al classico thrash, e quando il disco entrò in rotazione sui nostri stereo ci accorgemmo che non era così. I Megadeth erano andati avanti, recuperando le sonorità complesse del primo lustro degli anni novanta, senza abbandonare quella vena melodica che aveva contraddistinto i loro due lavori più controversi di fine millennio. Riascoltato oggi senza quelle aspettative di vent’anni fa, si può affermare che con The World Needs A Hero, i Megadeth rialzarono la testa e posero le basi per il nuovo millennio. Da recuperare e da ascoltare, finalmente senza pregiudizi.

John Preck
Voto: 78/100 

Tracklist:

1. Disconnect 
2. The World Needs a Hero
3. Moto Psycho 
4. 1000 Times Goodbye 
5. Burning Bridges 
6. Promises 
7. Recipe for Hate...Warhorse 
8. Losing My Senses 
9. Dread and the Fugitive Mind 
10. Silent Scorn 
11. Return to Hangar 
12. When

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