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NECROPHOBIC "Dawn of the Damned" (Recensione)



Full-length, Century Media Records 
(2020) 

Correva l'anno 1989 e in quel di Stoccolma un giovane chitarrista diciannovenne di nome David Parland, che qualche anno più tardi fonderà i ben più noti Dark Funeral con lo pseudonimo Blackmoon, dava alla luce insieme al batterista Joakim Sterner il progetto death/black metal Necrophobic, al quale si uniscono in seguito il cantante Anders Strokirk e il bassista Tobias Sidegard. Il quartetto propone fin dagli esordi un brutale metal estremo con influenze thrash e richiami a band quali Bathory, Slayer e Morbid Angel, a cui aggiunge un tocco tecnico e melodico che getta le fondamenta del melodic death/black metal svedese, anticipando di qualche anno i più fortunati Dissection e Naglfar. Sin dalle demo "Slow Asphyxiation" e "Unholy Prophecies" Parland e soci si fanno notare per la qualità del loro sound, mai scontato e sempre più affinato col passare degli anni in un percorso evolutivo che li ha resi una delle band più costanti del panorama estremo scandinavo, migliorandosi album dopo album nonostante i molti cambi di formazione (uno su tutti l'abbandono dello stesso Parland in favore di Martin Halfdan nel 1996) e di etichetta, senza mai scendere a compromessi nè cadere nel banale. I Necrophobic di adesso sembrano al contrario maturati almeno dal punto di vista tecnico rispetto a quelli di certi capolavori quali "The Nocturnal Silence" e "Darkside", ben più inclini ad un blackened death metal spietato e diretto, e non disdegnano influssi melodici che ne hanno reso la maturazione stilistica più continua e definita, al punto di rinnovarsi continuamente e raggiungere apici sempre più elevati, senza rinunciare mai alla malvagità del loro sound. 

"Dawn of the Damned" è il nono album in studio della band, fresco di rilascio sotto la tedesca Century Media Records, e cavalca brillantemente l'onda di rinascita iniziata con il precedente "Mark of the Necrogram", favorita dai ritorni del chitarrista Sebastian Ramstedt (già nella formazione tra il 1996 e il 2011) e di Strokirk al posto del malcapitato Sidegard, allontanato in seguito alla reclusione per molestie nel 2014; rispetto a quest'ultimo lavoro solo un cambio di formazione, che ha visto Allan Lundholm rimpiazzare lo storico bassista Alex Friberg. L'album si presenta nella sua malvagità sin dalla copertina, che ritrae sotto un suggestivo motivo rossastro le maestose porte dell'Inferno, sorvegliate da due mostruose creature partorite dagli abissi fiammeggianti del sottomondo, e la musica sembra riprendere alla perfezione l'atmosfera di indubbia blasfemia di tale presentazione visiva. Il sound è bestiale, feroce e pregno di oscurità come ogni singolo lavoro del gruppo da ormai trent'anni a questa parte, ma al contempo fresco e definito, vagamente melodico pur senza cadere nella scontatezza di "Womb of Lilith", e tra richiami agli ultimi Watain e sporadicamente anche ai Behemoth fila liscio su di un tracciato rapido e frizzante, di una ferocia fulminante condita però da atmosfere quasi epiche, che rappresentano l'ennesimo passo avanti e la marcia in più dell'intero lavoro, ben più oscuro e malefico dei precedenti. Il suono delle chitarre del quintetto non è forse mai stato così nitido, tagliente ed opprimente ma al contempo melodico e danzante, come un'altalena sospesa tra due dimensioni separate, l'una carica di ferocia e l'altra intrisa di sinistra raffinatezza; la batteria picchia come nei tempi d'oro e non lascia scampo tanto nei momenti di furia quanto nei frequenti rallentamenti e lo scream di Strokirk è definito e diabolico, che sembra giungere direttamente dai territori infernali più profondi. Nessuna titubanza, dunque, da parte dei Nostri, ma al contrario la ferma intenzione di dimostrare che il tempo non ha affievolito la loro voglia di creare un caos sonoro senza limiti, seppur rincorrendo armonie e tecnicismi vari che non sono altro che la conferma della loro evoluzione, sempre più propensa a perdurare in eterno.

L'apertura dell'album è affidata alla breve ma oscura introduzione "Aphelion", che lascia evolvere la chitarra cupa e distorta di presentazione verso atmosfere gelide ed epiche che sul finale si fanno maestose, a catturare l'attenzione dell'ascoltatore per poi subito dopo travolgerlo con un'esplosione black/death caricata da una batteria martellante e da un riffing affilato e accompagnata da un cantato veemente; un accenno acustico interrompe la furia del brano anticipando un assolo melodico e distorto prolungato, la cui tecnica è da brividi sulla pelle, prima della ripresa finale. Non è da meno "Mirror Black", che dopo una partenza atmosferica e lugubre accelera ferocemente in un duetto micidiale tra la batteria di Sterner e la chitarra gelida e tagliente di Ramstedt, il cui riffing serrato raggiunge velocità claustrofobiche fino alla virtusità dell'assolo, prima di farsi distorta e lugubre nel rallentamento in crescendo del finale; il livello si mantiene altissimo con la successiva "Tartarian Winds", veemente nella partenza in puro blackened death e più ragionata nella successiva fase, scandita da un riffing oscuro e malvagio che cavalca poi melodie definite accelerando verso universi distorti e insani. L'apice dell'album è però rappresentato dalla traccia più lunga della release, "The Infernal Dephts of Eternity", che nei suoi sette minuti e mezzo di durata passa dalle atmosfere tenui dell'intro acustica alla ferocia urlata da voce e chitarre e cadenzata da una batteria fulminea, che rallentando riprende l'aura sinistra iniziale con un riffing gelido interlocutorio e un cantato sofferto e abissale, in un crescendo che conduce ad un assolo tagliente e ad una nuova spietata accelerazione, chiudendosi con un'atmosfera melodica e tragica al termine di un lungo percorso di variazioni che risulta opprimente all'ascolto quanto bestiale. La title-track rispecchia alla perfezione il sound tipo dei Necrophobic, con accelerazioni veementi e un muro di chitarre freddo ed oscuro a dare al brano un'essenza malvagia e tenebrosa, mentre con la lenta e insipida "The Shadows" si apre una seconda parte di album che non riesce a ricalcare l'alto livello della prima, alternando parti acustiche alle classiche sfuriate e riffing taglienti ad assoli melodici e tecnici senza però mai eccelere; degna di nota è la conclusiva "Devil's Spawn Attack", brano molto tirato e affilato che si colloca tra il blackened death e il puro thrash grazie anche alla partecipazione del cantante dei Destruction Schmier. 

"Dawn of the Damned" risulta all'ascolto una vera alba di dannazione e malvagità per i Necrophobic, che nonostante la loro carriera trentennale continuano a sorprendere e a superarsi album dopo album, in una crescita stilistica che non sembra avere fine ma anzi aver trovato davvero un nuovo punto di partenza. L'impatto del compianto Blackmoon al successo e alla lunga vita della sua prima creazione è indubbio, poichè sin dai primi lavori la sua celebre chitarra ha affinato le gelide linee che lo avrebbero portato a dare alla luce i suoi Dark Funeral e lasciare a Sterner e compagni un'eredità che non ha ancora cessato di dare i suoi frutti e che ormai ha un'identità personale, che in pochi ormai sono in grado di eguagliare. 

Alessandro Pineschi 
Voto: 86/100

Tracklist:
1. Aphelion 
2. Darkness Be My Guide 
3. Mirror Black 
4. Tartarian Winds 
5. The Infernal Depths of Eternity 
6. Dawn of the Damned 
7. The Shadows 
8. As the Fire Burns 
9. The Return of a Long Lost Soul 
10. Devil's Spawn Attack 

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