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IRON MAIDEN "Senjutsu" (Recensione)


Full-length, Parlophone
(2021)

In un anno piuttosto avaro di spunti di cronaca particolarmente interessanti, musicalmente parlando, vuoi per un mercato piuttosto stantìo, vuoi per gli innegabili ed inevitabili intoppi legati all'emergenza Covid, ci voleva proprio un album dell'heavy metal band per eccellenza, sua maestà gli Iron Maiden, per riaccendere dibattiti e diatribe varie. Premesso che da trentanni a questa parte ormai ogni nuova uscita della Vergine di Ferro ha scatenato incensamenti o polemiche di ogni ordine, c'è da dire che Dickinson e soci ci hanno messo anche del loro nell'occasione, tirando fuori (volutamente?) due singoli piuttosto particolari e tutto sommato spiazzanti a livello di sound e struttura, che ascoltati fuori dal contesto dell'album hanno mosso subito i più classici dei rumors circa una presunta, o possibile, "svolta" musicale verso territori più affini all'hard-rock ("The Writing on the Wall") o comunque a strutture di brano più intricate e meno immediate rispetto a quelle che ogni fan sfegatato della band britannica si aspetterebbe ("Stratego"). 

Sgombriamo subito il campo da ogni possibile fraintendimento: il sottoscritto ama le cosiddette "svolte", che preferirei definire evoluzioni, o comunque cambi di tema. C'è chi si attacca al concetto della tradizionalità o del marchio di fabbrica, per me nulla di più sbagliato! Anche band storiche e legate indissolubilmente ad un sound possono evolvere nel corso degli anni senza necessariamente snaturarsi...certo per una band che ha di fatto inventato o contribuito ad inventare una corrente musicale (in questo caso la NWOBHM) è tutto maledettamente più difficile, ma assolutamente non impossibile e di sicuro tutt'altro che controproducente. E ve lo dice uno che reputa "Stiff Upper Lip" il miglior lavoro degli AC/DC negli ultimi 30 anni, permeato com'era di quell'aura maggiormente blues che spezzava il solito canovaccio portato pedissequamente avanti dal fortunatissimo "Back in Black" in poi, tirando fuori album tutti uguali per quanto fighi il giusto. O ancora, ve lo dice uno che nell'ormai lontanissimo 2002 (sigh...) alla tenera età di 18 anni fu tacciato di eresia dai fans dei Death SS quando reputò "Humanomalies" il miglior album della storia della band di Steve Sylvester, capace a quei tempi di inserire l'elettronica e l'industrial all'interno della propria violentissima proposta, di fatto provocando l'indignazione dei vecchi fans più legati al sound classico di "Heavy Demons". 

Tutto questo preambolo per cosa? Semplicemente per farvi capire che mi sono avvicinato all'ascolto di questo "Senjutsu" senza i paraocchi del caso, senza preconcetti in grado in qualche maniera di influenzarmi nel giudizio, ed anzi speranzoso di ascoltare qualcosa di nuovo in casa Iron Maiden. Ma passiamo all'interrogativo principale: "Senjutsu" è un album così tanto diverso? Ammetto di aver messo non poco tempo a sciogliere diversi dubbi nel corso dell'ascolto dell'album. Un'interpretazione non facilissima, per un lavoro che sa essere tanto immediato ad un ascolto superficiale, quanto improvvisamente intricato ad un ascolto più approfondito, quest'ultimo di certo non facilitato dall'enorme durata dell'opera, che si compone di due dischi per 81 minuti complessivi di musica racchiusi in soli dieci pezzi. La "svolta" così definitiva sinceramente non l'ho sentita, semmai possiamo parlare di "Senjutsu" come di una degna evoluzione dell'ormai vecchio "The Book of Souls" altro disco doppio e lungo uscito ormai sei anni fa, che ho potuto apprezzare solo dopo aver visto il combo londinese nel corso dello stesso tour promozionale postumo all'uscita. E del resto non ho mai faticato a scindere gli Iron Maiden dell'ultimo periodo in due realtà: una in studio ed un'altra dal vivo, con quest'ultima che riuscirebbe a rendere epica anche una cover di Orietta Berti per intenderci, dall'alto di una classe innata soprattutto per l'incredibile capacità di spaccare il palco, prima ancora che per le indubbie doti musicali del sestetto britannico. Rispetto al predecessore, la differenza principale sta in un'approccio maggiormente "progressive", nell'inserimento massiccio delle tastiere, e nell'estremizzazione di quella sorta di "suite", pezzi lunghi e dilatati presenti soprattutto nel secondo disco. E qui sta a mio parere anche la prima pecca del lavoro, una differenza forse troppo marcata tra le atmosfere del primo disco e quelle del secondo che racchiude i migliori capitoli del lavoro, rendendo di fatto più fiacco l'ascolto dei primi quaranta minuti dell'album, in cui qualche sbadiglio di troppo qui e lì sembra inevitabile. 

Per meglio descrivere le sensazioni provate dal sottoscritto all'ascolto del doppio album, non posso esimermi dal valutarlo con una sorta di track-by-track, tipologia di recensione che sinceramente non amo molto, ma che meglio si addice all'analisi delle mille sfaccettature (positive e negative) che questo "Senjutsu" presenta. Il primo disco, come già detto, è quello più immediato ed ordinario, ed è anche quello in cui, ahinoi, sono presenti i brani meno riusciti del lotto seppur con qualche eccezione: una di queste è l'opener che da il titolo al lavoro, in cui viene estremizzata la componente epica, creando un pezzo estremamente coinvolgente, dotato di un ottimo chitarrismo ed un tappeto tastieristico di grande atmosfera che forgia un brano che sicuramente si farà apprezzare tantissimo dal vivo. La successiva "Stratego" è un brano già ben conosciuto alla stragrande maggioranza del pubblico, essendo stata scelta dalla band come secondo singolo. Le atmosfere iniziano a tendere, timidamente, verso territori maggiormente progressive con il basso di Harris che prova in qualche modo a rifare il verso al periodo "Piece of Mind" ma non riesce a colpire risultando alla lunga forse troppo piatta per quanto decisamente non da buttare. "Writing on the Wall", probabilmente il brano più celebre essendo il primo singolo uscito diverso tempo prima dell'album, cambia invece le carte in tavola presentandosi come un pezzo dall'orientamento hard-rock. Di per sè neppure male, dotato com'è anche di un ottimo assolo centrale; quello che manca tuttavia è la progressione che non giustifica una durata, per quanto "esigua" rispetto a molti altri capitoli, comunque superiore ai sei minuti malgrado il pezzo abbia già detto tutto già a metà. "Lost in a Lost World" presenta una intro acustica, che sfocia quasi subito in fughe chitarristiche che per certi versi ricordano le soluzioni adottate nella sottovalutatissima "Mother Russia" (da "No Prayer for the Dying", 1990); un brano sui generis che può sembrare fiacco, ma che sa riprendersi alla grande nella parte centrale in cui l'aspetto chitarristico e gli assoli incrociati fanno innalzare il valore generale, malgrado la lunghezza di nove minuti e mezzo non venga compensata da un'adeguata progressione del pezzo, che riprende nel finale lo stesso ritornello in cui gli acuti ripetuti di Dickinson tendono alla lunga a diventare piuttosto stucchevoli. A chiudere il primo disco ci sono "Days of Future Past" brano più diretto, il meno lungo del lotto, molto più classicamente maideniano che però non convince più di tanto, e la conclusiva "The Time Machine" pezzo che si lega a stretto filo con quanto già sentito in "The Book of Souls". 

Di ben altra pasta, sempre a parere del sottoscritto, il secondo disco decisamente più coraggioso ed in cui i pezzi, ad eccezione dell'opener, si dilatano maggiormente ma in cui sono racchiusi alcuni capitoli che rappresentano quanto di meglio proposto dalla Vergine di Ferro negli ultimi dieci anni. Si parte con l'affascinante "Darkest Hour" l'unico pezzo veramente più ordinario di questi ultimi 41 minuti di musica; un brano più melodico e "ruffiano" che riporta alla mente atmosfere affini alla celebre "Wasting Love" e che sicuramente saprà fare ottima presa dal vivo. Dalla successiva "Death of the Celts" si inizia a fare sul serio: il pezzo ricalca le atmosfere più epiche già ascoltate nella title-track iniziale, arrivando ad estremizzarle con ottimi risultati. Una maggiore epicità risaltata anche dalle vocals di Dickinson che nella parte iniziale sembra addirittura rifare il verso al tanto bistrattato Blaze, mentre nella parte centrale sale in cattedra il basso di Harris che accompagna giri di chitarra più intricati ad alternarsi con le tastiere ed archi sintetizzati; uno scambio continuo di ruoli che vede come unica costante l'accompagnamento ritmico di uno Steve Harris finalmente tirato a lucido, per poi sfociare nel finale verso territori puramente e sorprendentemente progressive. "The Parchment", permettetemi, è non solo il brano migliore del lotto, ma probabilmente uno dei pezzi più belli composti dagli Iron Maiden dell'ultimo corso. A parere del sottoscritto è un pezzo clamoroso, e non esagero! Il riff portante elegante ed oscuro, riporta addirittura alla mente i meravigliosi Savatage periodo "Gutter Ballet", la componente power-progressive prende il sopravvento sul classico Maiden-sound, e forgia un brano in cui una volta tanto Dickinson passa in secondo piano ed in cui è l'aspetto strumentale a farla da padrone, permeato da un'aura affascinante dettata dal lavoro delle tastiere onnipresenti per l'intera durata del pezzo. Un brano che, inoltre, a differenza del resto del lotto fa valere tutti i suoi 12 minuti di durata, grazie ad una incredibile progressione che rende il pezzo vario ed articolato; non stiamo parlando del solito strofa-ritornello-strofa, ma di un brano che inizia in un modo e si conclude in un altro, che a tratti ci fa ricordare che stiamo ascoltando un album degli Iron Maiden, ma a tratti riesce a discostari con disarmante disinvolura dal classico suono della Vergine di Ferro. Superati i 12 minuti di godimento, l'album si chiude degnamente con la conclusiva "Hell on Earth", degnamente perchè per quanto in questo caso ci si riavvicini al classico Maiden-sound, il pezzo presenta un ritornello centrale destinato senza ombra di dubbio a spopolare nei prossimi appuntamenti dal vivo della band londinese. 

Per chiudere il cerchio, senza dilungarci troppo, il voto espresso rappresenta la logica risultante tra le due anime del lavoro: una sintesi generale tra pezzi decisamente trascurabili ed altri ben fatti, con l'apice della già citata "The Parchment" e diversi altri capitoli riusciti, ben fatti e ben composti. Di sicuro quello che forse resta difficile da capire, è l'estrema durata del doppio disco, che tende in alcuni tratti a voler forzare la mano, quasi a "riempire" l'opera, ed inoltre la suddivisione dei brani sembra quasi studiata a tavolino con l'intenzione di dividere l'album in due atmosfere ben distinte; una maggiore varietà ed alternanza tra brani più complessi ed altri più semplici avrebbe forse giovato all'ascolto. 

Luca Di Simone
Voto 65/100 

Tracklist:
Disc 1

1. Senjutsu
2. Stratego
3. The Writing on the Wall 
4. Lost in a Lost World 
5. Days of Future Past
6. The Time Machine 

DURATA TOTALE: 40:15

Disc 2
1. Darkest Hour 
2. Death of the Celts 
3. The Parchment 
4. Hell on Earth 

DURATA TOTALE: 41:38

Line-up:
Steve Harris: Bass, Keyboards 
Dave Murray: Guitars 
Adrian Smith: Guitars 
Bruce Dickinson: Vocals 
Nicko McBrain: Drums 
Janick Gers: Guitars 

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